Munari: «Al rugby italiano manca un campionato credibile. Otto anni per rinascere? Pochi»

Venerdì 5 Marzo 2021 di Antonio Liviero
Vittorio Munari

Tre partite di 6 Nazioni, quasi 150 punti al passivo. Trentesima sconfitta consecutiva nel Torneo. Il rugby italiano vive in un eterno anno zero. Vittorio Munari, dg del Petrarca dopo l'esperienza col Benetton in Celtic League, non è sorpreso. «Chi conosce in profondità il rugby italiano - dice - non dovrebbe esserlo».

Eppure siamo da 21 anni in un torneo ricco.

«Bisogna andare a monte. Da quando nel 98 l'Italia è entrata nel gruppo delle migliori sono stati commessi errori strategici anziché consolidare la struttura che ci aveva portato a quel risultato. Il rugby italiano era mantenuto dai club. Poi dagli inizi del Duemila è stato smantellato il campionato. Si è creato un vertice sospeso nel nulla. Prima i giocatori sono stati lasciati andare all'estero, poi con la creazione delle franchigie è stato svuotato dei 60-70 migliori interpreti, da quel momento gestiti direttamente dalla Fir, che ha preso il potere economico lasciando ai club un torneo senza valore, privo di immagine e di appeal».

Come definirebbe la situazione storica? «Viviamo un interminabile Medioevo».

Perché il campionato è importante? «Esprime la parte vitale del movimento, la storia. Se tagli le radici, la pianta si inaridisce e non dà frutti».

Si è voluto centralizzare la struttura sull'esempio di altre federazioni. «Oggi tutte le gestioni centralizzate hanno grossi passivi di bilancio, la Nuova Zelanda è costretta a concedere l'anno sabbatico agli All Balcks perché vadano a prendere soldi in Giappone, la Scozia ha 8 giocatori nei campionati stranieri. E comunque qualunque gestione centralizzata richiede un coordinamento armonico con il territorio. Certo in Nuova Zelanda ci sono interscambi tecnici con la federazione ma poi le franchigie sono libere di giocare come vogliono».

Il sistema Italia non produce giocatori di qualità in numero sufficiente per reggere la sfida internazionale. Come mai?  «In Italia un ragazzo è costretto a fare il suo apprendistato direttamente in Nazionale e ha un picco di performance mediamente di appena 3-4 anni, un dato su cui riflettere perché i costi di formazione sono poi sproporzionati rispetto ai risultati».

Il Pro14 non è sufficiente? «Le franchigie hanno un senso se sono ancorate a una base forte e larga. L'unico collegamento con i club ora mi sembra quello dei permit player. Tanti ragazzi escono dall'accademia federale avendo giocato nel campionato di seconda divisione e passano direttamente alle franchigie senza essere pronti. Il salto è troppo grande. Anche per questo servirebbe un Top 10, meglio Top 8, credibile».

Le accademie non servono? «Non sto dicendo questo. Dico solo che i costi dei giocatori prodotti sono sproporzionati rispetto a quanto poi riescono dare».

C'è anche un problema di competenze? «Si tende a lavorare sui punti forti dei ragazzi anziché sui quelli deboli. Ma poi non si possono aspettare 5 anni di nazionale per vedere se uno impara a difendere».

Come se ne viene fuori? «La prima cosa è la consapevolezza dei problemi per fare una diagnosi corretta».

 Il ct Smith dice che ci vorranno otto anni. «Forse è addirittura ottimista. Ma il punto è un altro: 8 anni fa qualcuno ci disse che saremo entrati presto tra le primo 8 al mondo. Poi è arrivato O'Shea che assicurava di vedere la luce in fondo al tunnel. Ora se servono altri 8 anni, non è il ct che deve dircelo. Ce lo deve venire a dire chi è stato responsabile delle scelte».

Però siamo cresciuti rispetto a 20 anni fa. «La crescita si misura nel gap. Io dico che 20 anni fa vedevamo la targa dei nostri avversari, oggi ci stanno davanti di chilometri».

Il 13 marzo si rinnovano i vertici federali. «Le persone che gestiscono il rugby italiano sono sempre le stesse da 20 anni. Ora ci sono consiglieri che hanno deciso di non sostenere più il presidente uscente Gavazzi e vorrebbero far passare la cosa come se non avessero nulla a che vedere con il passato mentre anche loro hanno votato le delibere. Io non ci sto con questo modo di fare. Per questo dico che dobbiamo pretendere una assunzione di responsabilità».

Ultimo aggiornamento: 6 Marzo, 20:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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