C'era adrenalina nell'aria, ieri, per le strade di Roma.
Non era passato un secolo, ma 31 anni dall'ultima volta che la Roma aveva disputato una finale europea, e 61, sì sessantuno, dall'ultima, anzi dall'unica vittoria, ma era la pionieristica Coppa delle Fiere, nulla a che vedere nemmeno con questa Conference League, tanto sbeffeggiata eppure, come ricordava capitan Pellegrini alla vigilia, «meglio giocarsela sul campo che guardarla dal divano». Al resto d'Italia, per il secondo anno consecutivo, è toccato il divano, spettatori delle imprese giallorosse, le più illustri d'Italia (e la cosa, più che inorgoglire i romanisti, dovrebbe far riflettere una volta di più sullo stato di salute del calcio italiano, ma questa è un'altra storia). Che il nostro pallone possa ripartire da questa serata, è tutto da dimostrare. Che l'Italia abbia dovuto attendere il ritorno di Mourinho per rivincere una coppa europea, dodici anni dopo la Champions interista, dice molto dell' integrità professionale del tecnico portoghese ma, anche, della dimensione del nostro calcio, ormai più a suo agio nelle ristrettezze dello stadio di Tirana che nelle larghezze del Bernabeu, dove i nerazzurri sconfissero il Bayern nel 2010.
Che la storia della Roma da oggi possa diventare un racconto di successi, è auspicabile per la Capitale e per il Paese, ma in realtà era già accaduto prima che la squadra scendesse in campo. E non ieri, ma giorni e mesi fa. L'intuizione vincente di Mourinho è stata comprendere al volo come ravvivare un amore via via immalinconito dai distacchi di Totti e De Rossi. Serviva una guida, un totem, un nuovo capostipite che riaccendesse l'antico fuoco: chi meglio di lui? La Roma ha vinto. Ma ben prima di ieri sera. È accaduto tutte le volte che in questa straordinaria stagione l'Olimpico ha registrato il tutto esaurito, l'ultima ieri sera, in cinquantamila per vedere un prato verde e un maxischermo, per condividere un sentimento, un senso di appartenenza, prima che una gioia. Non è il risultato del campo che può modificare questo moto dell'anima. Non è la vittoria che rinnova l'amore. Ma è bello, finalmente, sentire che il mondo stia dalla tua parte. Todo cambia, cantava Mercedes Sosa. Anche per i romanisti.
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