Roma, Matic: «Sono qui per vincere con Mou. Dybala? Porterà la qualità extra che ci serve»

Venerdì 22 Luglio 2022 di Stefano Carina, inviato ad Albufeira
Roma, Matic: «Sono qui per vincere con Mou. Dybala? Porterà la qualità extra che ci serve»

Fisico rubato al basket, sorriso gentile e occhi di chi, a 34 anni, ha già vissuto tante vite. Dentro e fuori dal campo di gioco.
Nemanja Matic, iniziamo dall'arrivo di Dybala. Cosa può regalare alla Roma?
«È un ragazzo che porterà quella qualità extra che sarà necessaria per ottenere dei risultati in futuro.

Ho giocato contro di lui e so quanto può essere pericoloso. È il profilo giusto per noi».

Non ha avuto remore a lasciargli la maglia numero 21?
«No, figuriamoci. Me lo aveva già accennato la società. Poi quando è arrivato qui me lo ha chiesto lui e gli ho detto che non c'erano problemi. La maglia numero 8 è quasi un inedito per me: l'ho presa una volta soltanto in nazionale».

Lei ha giocato con tantissimi campioni. Dybala le ricorda qualcuno in particolare?
«Paulo è un trequartista vecchia maniera che può giocare anche da seconda punta. Un profilo che nel calcio moderno figura sempre meno. Se devo proprio fare un nome, dico Mata al massimo dello splendore. Per intenderci quello che vinse da protagonista il Mondiale e l'Europeo con la Spagna. Sono quei calciatori che riempiono gli stadi e con un tocco risolvono la partita».

Matic invece cosa può regalare alla Roma?
«Con la mia esperienza posso portare stabilità in campo e aiutare i giovani e il gruppo a migliorare».

Quale deve essere l'obiettivo stagionale?
«Difficile dirlo oggi dove saremo a maggio. Pensiamo ad una partita alla volta, quindi alla Salernitana, senza proclami. Poi vedremo».

Lo sa che ascoltandola sembra di sentire parlare Mourinho?
«Non per nulla sono il centrocampista che dopo Lampard ha giocato più gare con lui (ride). Allora integro la risposta... È evidente che dentro di noi vogliamo vincere qualcosa. Ma è inutile dirlo a luglio, tutto qui».

A proposito di José, ha impiegato più o meno di 5 minuti a convincerla a venire a Roma?
«Meno. Quando ho deciso di lasciare lo United, ho ricevuto la sua chiamata. E ho detto subito di sì».

Le ha chiesto, oltre di raggiungerlo, di diventare il playmaker della squadra?
«La posizione in cui posso rendere al meglio José la conosce bene. Giocare in una linea a cinque o a quattro non cambia molto. Il ruolo rimane sempre quello di proteggere la difesa e organizzare la costruzione in quella zona di campo».

Cosa ha di speciale, di magico questo allenatore al quale basta alzare il telefono e convincere lei, Dybala, Abraham ma in passato anche gente del calibro di Eto'o e Sneijder?
«Ha semplicemente qualcosa in più. Mou ti motiva, ti sprona perché è lui il primo ad avere fame di vittorie. Penso di conoscerlo abbastanza bene e posso assicurare di non averlo mai visto soddisfatto. O meglio, lo può essere dopo un match vinto, dopo un trofeo conquistato ma 5 minuti dopo è lì che già pensa al domani. E questo suo modo di essere ti affascina. Così per ogni calciatore diventa un privilegio essere allenati da lui. Se poi si aggiunge che ovunque va, ottiene risultati, si capisce perché ogni giocatore ambisce a giocare nelle sue squadre».

Lei ha una storia speciale. Da calciatore e da uomo. Le va di raccontare quando nel 2016 aiutò il suo paese natale, Vrelo, pagando tutti i debiti che i cittadini avevano nei confronti di alcuni negozi e supermercati della zona?
«Non amo parlare molto di questi aspetti. Le cose si fanno senza reclamizzarle. Siccome ormai è uscito fuori, posso dire che è stato un gesto naturale. Ho cercato e cerco anche oggi di aiutare le persone dell'area nella quale sono nato. Sono cresciuto in una zona povera dove non c'erano campi da calcio, da ragazzini avevamo soltanto un pallone. E adesso cerco di fare in modo che i bambini di Vrelo possano avere un'infanzia migliore di quella che ho avuto io».

Un altro aspetto particolare, è legato al suo rifiuto di indossare in Premier League il papavero rosso nel Remembrance Poppy, simbolo del ricordo della fine della Prima Guerra Mondiale e delle altre guerre.
«In realtà avevo iniziato a portarlo. Poi però il Governo inglese ha spiegato che quel simbolo serviva ad omaggiare tutti i soldati britannici caduti in tutte le guerre alle quali aveva partecipato il paese, ivi compreso il bombardamento contro la Serbia nel 1999. Da quel momento ho smesso. Non potevo indossare qualcosa che ha distrutto la mia casa, la mia gente, ha fatto migliaia di morti. È come se io uccidessi i suoi parenti e qualcuno la costringesse ad avere la mia foto sul comodino. Lei accetterebbe?».

Ventitré anni fa, ai tempi dei bombardamenti della Nato, viveva in Serbia?
«Sì ero un ragazzino, avevo 11-12 anni. Sono immagini che non mi toglierò mai dalla mente. Hanno semplicemente distrutto tutto. A casa avevamo un piccolo giardino e io da lì vedevo queste bombe piovere dal cielo. Sono cresciuto con la paura. Alla fine sono morti cinquemila civili. Il nostro popolo non potrà mai né dimenticare né perdonare».

Tornando a parlare di calcio, si è poi chiarito con Mihajlovic?
«Cosa è andato a ricordare... Ero giovane e nelle prime 3-4 partite di qualificazione per i mondiali brasiliani, non ho giocato. Mi sono reso conto che non rientravo nei suoi piani e così ho preferito lasciare la Nazionale prima che me lo dicesse lui, non rispondendo più alle convocazioni. Mai avuti però problemi personali con Sinisa».

Lo racconta come se fosse la cosa più normale del mondo...
«Sì, in effetti non capita tutti i giorni. Ma con Sinisa ci siamo in seguito chiariti. Siamo andati a cena insieme e lui mi ha chiesto di tornare. L'ho fatto con piacere in occasione di un match contro la Croazia. E da lì è ripresa la mia storia con la Nazionale. Mihajlovic è un grande allenatore, una bella persona. Un uomo che esternamente può sembrare burbero ma in realtà è una persona molto dolce e gentile».

Pur avendo vinto molto, c'è una gara che le piacerebbe rigiocare?
«Sì, Benfica-Chelsea, finale di Europa League della stagione 2012-13. Giocavo per il Benfica. Partita dominata che se rigiocassimo 100 volte vinceremmo con tre gol di scarto per le tante occasioni create e sprecate. E invece perdemmo 2-1 per un gol di Ivanovic al 90'».

Un calciatore con le sue caratteristiche fisiche (194 centimetri) e tecniche, non segna troppo poco?
«È vero, potrei e dovrei segnare di più. Dipende però dal fatto che servo per coprire la difesa e per organizzare la manovra da dietro. Mi auguro che con Mourinho possa diventare più prolifico».

In questa prime settimane di Roma, c'è un giocatore che ha catturato la sua attenzione?
«Preferisco soffermarmi sui ragazzi. Sì, ce ne sono un paio. Uno è Volpato. Si vede subito che ha qualcosa di diverso nelle gambe. Ha grande potenziale. E poi ce n'è un altro. Sono combattuto se fare il nome perché è un ragazzino di 16 anni e meno se ne parla meglio è. Tanto ormai si sarà capito, mi riferisco a Ivkovic. Ma lasciatelo stare, deve crescere».


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