San Gennaro, nella seconda metà degli Anni Ottanta del secolo scorso, la concorrenza se la trovò dentro casa: era un ragazzo venuto «quasi dalla fine del mondo», come avrebbe detto di sé tanto tempo dopo, dalla loggia dell’habemus papam, Papa Francesco, che se la batte con lui per il titolo di argentino più famoso del mondo. Leo Messi è un gradino più giù ed Evita Peron riposa in pace. Il ragazzo, che all’epoca del suo arrivo aveva 23 anni (era il 5 luglio dell’84) e oggi ne compie 60 (è nato il penultimo giorno di ottobre: il suo terno al lotto è perciò 10/30/60 per declinarlo all’americana, prima il mese e poi il giorno), è Diego Armando Maradona.
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CARNE E SANGUE
E Maradona fu carne e sangue per quella Napoli povera e comunque milionaria, sempre in cerca di un Masaniello o di un re, meglio se Borbone. Di lui ha detto Vittorio Sgarbi: «È il Caravaggio del XX secolo: i volti di Caravaggio sono i ragazzi di vita, della strada, delle periferie dell’umanità. Con lui la vita diventa arte, proprio come con Maradona». Un’arte del pallone che poteva dare brividi, sensuale come un tango. Campione del mondo con l’Argentina, che fino a lui lo era stata una sola volta, quella che i generali puntavano la pistola alla tempia di chiunque capitasse a tiro, campione d’Italia per due volte con il Napoli che non lo era stato mai, Maradona è nato a Lanus. Fu il tesoretto della squadra, quando passò al Barcellona, e il tesoro del Barcellona quando lo passò al Napoli di Corrado Ferlaino. Fu a Barcellona che conobbe la cocaina. Passò al Napoli con giallo di lettere, pagamenti e soldi, ma ai Quartieri Spagnoli poco importava. Importava che arrivasse quel San Gennaro e che spazzasse via tutta l’antinapoletanità cui certa Italia s’abbarbica, la volpe e l’uva. Vinse con Ottavo Bianchi in panchina e pure con Alberto Bigon. Finì squalificato e risqualificato, cocaina ed efedrina ai mondiali Usa; evasioni con la droga, cercando chissà quale mondo, intrecciando relazioni d’ogni tipo, anche d’amore, storie di sesso ma anche d’amore, con un figlio riconosciuto quando era ormai grande, grosso maggiorenne; evasioni anche d’altro tipo, che riguardavano il fisco; finì per diventare ciccione e malato; bypass gastrici e cardiaci; ebbe amici potenti nel bene e nel male; quei suoi gol di imprendibili traiettorie e angolazioni al pallone, segnati con i piedi e anche con la mano, la mano de Diòs, la chiamò, la chiamarono, o dribblando quasi tutto l’undici d’Inghilterra in campo mondiale diventarono il magnifico ricordo del tempo che fu.
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NEL BENE E NEL MALE
Il tempo che venne quando lasciò il gioco (o glielo fecero lasciare, quei Poteri Forti del calcio, il colonnello svizzero Blatter che ne fu padrone per decenni da dimenticare, e l’argentino Grondona) non fu più quel Maradona di Napoli. Cadde e risorse, questo sì: il mondo di quelli che pensavano e cantavano di lui che è “cchiù megl ‘e Pelè” piombava spesso nell’angoscia. Perché se era stato eccessivo nella sua bellezza di campione, Maradona è stato poi l’eccesso in tutto quello che ha fatto, non solo nei chili messi su e ricacciati indietro; a volte, clownesco, la parodia di quei giorni “’O sole mio”; la nazionale ingloriosamente allenata, le squadre di club inseguite nei cimiteri degli elefanti che sono gli stadi d’Arabia e degli sceicchi; il ritorno laggiù in Argentina. Dove per una partita di una sua squadra si fece fare la panchina a forma trono. Ma era un trono fasullo, di cartapesta. Peccato essere stato un re in campo, ma fuori dalle strisce di gesso il suo è stato, almeno fin qui, un esilio perenne. Quel Maradona che calciava da dio è diventata, con gli anni, la caricatura di Diego. Se non faceva rabbia, faceva pena: come può essere successo? Ma oggi che è il suo compleanno, quello dei suoi primi sessant’anni, gli auguri ci sono dal mondo intero. Auguri malinconici pensando a quali furono i suoi primi trenta, l’oro di Napoli.
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