Luca lo ha sempre chiamato Agostino e non papà. Perché per la morte di Di Bartolomei, storico capitano della Roma campione d'Italia nel 1983 e suicidatosi a dieci anni dalla finale persa contro il Liverpool, ha sempre vissuto un profondo senso di colpa. «Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch’io una parte di responsabilità», ha raccontato in un'intervista al Corriere della Sera.
Lo ha sempre chiamato Agostino, e non papà: «Perché fino ad ora l’incapacità di capire come vivere questa vicenda ha provocato una rabbia che ha eretto una specie di muro tra me e lui. Quasi invalicabile. Invece da simili esperienze bisognerebbe imparare ad avere la forza di accettare le proprie fragilità e non provare sempre a superarle spingendosi oltre; riempire ogni cosa di significati va bene, ma va bene anche non avere l’ansia di riempirle ad ogni costo perché altrimenti manca qualcosa».
Luca Di Bartolomei e il racconto del 30 maggio 1994
«Il 30 maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala - il racconto di Luca Di Bartolomei al Corriere della Sera -. Io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s’era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un’ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco».
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