Mancini, la forza delle idee: la rivoluzione di un vincente

Martedì 13 Luglio 2021 di Ugo Trani
Mancini

Roberto Mancini non è più solo Mancio, come lo chiamano da una vita ex compagni e amici. Con affetto, prima che si sedesse sulla panchina della Nazionale. Adesso è anche Recordman e non c’entra il successo di Londra. Mai in azzurro, prima del suo insediamento, c’è stato un ct capace di ottenere un raccolto del genere: 34 partite senza perdere, a meno 1 dalla Spagna che tra il 2007 e il 2009 arrivò a 35; 13 vittorie consecutive, senza contare l’en plein nelle qualificazioni europee, con 10 su 10; 1168 minuti senza prendere gol fino a quello di Kalajdzic proprio a Wembley negli ottavi e 11 match di fila senza incassarne. Una striscia, dunque, tira l’altra. E il raccolto è al top. I suoi numeri sono migliori di quelli di Pozzo, due volte campione del mondo, e di Lippi, un mondiale vinto. In 3 anni e 2 mesi ha insomma conquistato l’Italia.

Non con le cifre e con i risultati (2 ko in 39 partite). Con le prestazioni.

VALUTAZIONE QUOTIDIANA
Mancini ha scelto i giocatori e a quelli ha trasmesso, nel trienno della sua gestione, i principi fondamentali della sua idea di calcio. Ne ha convocati 77, utilizzandone 67, con 35 debuttanti. Li ha chiamati per vederli e valutarli. Ha saputo quando insistere e quando prendere tempo. Non ha scaricato i senatori, tant’è vero che ha aspettato Chiellini, non al top prima dell’Europeo, e lo stesso Verratti, inserito nella lista dei 26 nonostante fosse ancora convalescente. Ma ha voluto ringiovanire il gruppo, puntando ad esempio su Zaniolo prima ancora del suo debutto in serie A. Ha seguito la crescita di chi gioca in provincia e quella di chi si è spostato all’estero. Anche se ha bocciato qualcuno, cominciando da Balotelli e finendo con Kean, non li ha mai messi ufficialmente da parte, lasciandogli aperto il cancello di Coverciano. Dipende(rà) sempre e solo da loro. Si è insomma comportato da selezionatore, ruolo che ha esaltato le sue conoscenze tecnico-tattiche. Più di un collega, anche i più esperti, dicono che intercetta il talento di un giocatore che altri proprio non riescono a vedere. Il meglio, insomma, lo dà al momento di preferire uno e non l’altro. Diventa pratico, invece, quando si adegua a quanto fanno gli allenatori nei club di serie A, proprio per mettere i convocati a loro agio.

SCELTA DEFINITIVA
Il ct ha cambiato e provato. Ha insistito ed è tornato indietro. Si è preso il giusto tempo per decidere quale strada intraprendere. Le somme le ha tirate quando ha deciso che la formula migliore fosse il 4-3-3 dinamico. Da spiegare perché non è poi così difficile da comprendere. L’Italia in campo ha coraggio e quindi attacca. Lo fa con più giocatori. In fase offensiva ecco il 3-2-5. Si crea di più, si rischia meno. Restano dietro tre difensori, a centrocampo solo due giocatori, davanti un terzino, due esterni, il centravanti e una mezzala. Prendiamo i titolari in campo contro l’Inghilterra. Davanti a Donnarumma sono rimasti Di Lorenzo, Bonucci e Chiellini; in mezzo Jorginho e Verratti; davanti, da destra, Chiesa, Barella, Immobile, Insigne ed Emerson. Entrando nello specifico: a destra resta largo l’esterno, permettendo l’inserimento di Barella, visto che da quel lato non scende il terzino. A sinistra si accentra Insigne per far passare Emerson, fino ai quarti Spinazzola. La svolta il 10 ottobre 2018 a Marassi contro l’Ucraina di Shevchenko: da quel giorno il centrocampo ha il suo trio di riferimento. Barella, Jorginho e Verratti: doppio play e incursore. Alle loro spalle crescono Zaniolo, Locatelli, Pellegrini, Sensi, Pessina e Cristante. Non è una data qualsiasi. È lì che il ct chiarisce al gruppo di volere l’Italia che domina e si diverte. Da quella sera l’Italia non perde più. Nella circostanza gioca senza centravanti. La girandola offensiva chiama in causa Chiesa, Bernardeschi e Insigne. Contro la Spagna e l’Inghilterra ha usato il falso nove in corsa. A Wembley la mossa ha cambiato il match. Fiducia a Immobile, ma anche senza centravanti si può attaccare e vincere. E senza per forza arrivare fino ai rigori.


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