Con un 4-3 gli italiani si riscoprirono uniti

Martedì 16 Giugno 2020 di Carlo Nordio
Il gol del 4-3 di Rivera

Può sembrar singolare celebrare il cinquantenario di una partita di calcio. Ma quello che rievocheremo tra qualche giorno è un evento speciale. Perché il 17 Giugno 1970 fu giocata, a Città del Messico, la semifinale dei Campionati mondiali tra Italia e Germania. Fu definita La partita del secolo, e lo stadio Azteca la ricorda con una targa commemorativa. Fu seguita in diretta da trenta milioni di italiani, e ancora oggi è esaltata anche da chi non ha avuto la fortuna di vederla.
La nostra Nazionale, per due decenni, era stata quasi inesistente. Alcune squadre erano ai vertici della tecnica, e tutti ricordano la grande Inter che strapazzava il Real Madrid di Di Stefano e il Milan che umiliava il Benfica di Eusebio. Ma gli azzurri erano stati sempre estromessi dai mondiali, e in quelli del Cile, nel 66, avevano dato una prova meschina. Tuttavia il titolo europeo, conseguito nel 68, aveva riacceso le aspettative. I nostri obiettivi erano ambiziosi, ma la strategia era tenacemente difensiva, affidata al contropiede e a qualche guizzo di alcuni campioni, come Riva, Mazzola o Rivera. Purtroppo questi ultimi due erano considerati incompatibili, e l'allenatore Valcareggi li alternava a staffetta. La squadra ingranò male, e superò la prima fase con una vittoria striminzita e due deludenti pareggi. Ma nei quarti di finale demolì il Messico per 4 a 1. Fu con questo viatico favorevole che affrontammo la Germania.
LA BEFFA
Lo schema tuttavia non variò. L'avversario ci intimidiva, e i nostri si disposero a catenaccio. I tedeschi si gettarono subito a capofitto, come Guderian nel 1940, ma stavolta peccarono di imprudenza. Alla prima occasione il nostro Boninsegna sorprese il portiere Sepp Meier con un potente sinistro. Poi i nostri fecero testuggine, con l'unico scopo di aspettare il fischio finale. Mazzola, dopo un primo tempo decoroso, uscì disciplinatamente, pallido e un po' immusonito, per lasciare il posto a Rivera. Il fuoriclasse, con i crampi allo stomaco, esordì senza convinzione, e sbagliò, calciando con il telefono la palla del 2 a 0. I tedeschi aumentarono la pressione, mandando sottorete due centravanti e tre ali. Beckenbauer fu agganciato in area, ma l'arbitro negò il rigore, retrocedendo il fallo al limite. Gli azzurri si chiusero ancor più in difesa, guardando i cronometro. L'arbitro Yamasaki recuperò un paio di minuti, che consentirono a Schnellinger, arcigno terzino in forza al Milan, di segnare il suo primo e unico goal in Nazionale: 1 a 1. Sembrò una beffa, ma era una giusta compensazione. Ai tempi supplementari, con i tedeschi euforici e i nostri annichiliti, la partita sembrava avviata a un esito funesto. E infatti dopo un paio di minuti un autogol di Poletti pareva averci messo una pietra tombale. Gli azzurri erano stremati, le marcature si smagliavano e gli schemi erano travolti. I teutonici, sempre più carichi, continuavano a premere, più che alla vittoria ambivano al trionfo. Fu un peccato di presunzione, perché il nostro Burgnich, con calma friulana infilò di piatto in rete una palla servitagli da Rivera.
IL MIRACOLO
Sul 2 a 2 la partita riprese, e il vento cambiò. Domenghini, che correva con le stampelle, uscì dal suo sonnambulismo atletico e servì Riva, che da sinistra batté il suo diagonale preferito, riportando l'Italia in vantaggio. La Germania reagì rabbiosamente, infilò azioni su azioni, errori su errori, finché Uwe Seeler, veterano dei campionati del 58, servì Muller che sorprese di testa il nostro Albertosi. Con un 3 a 3 a pochi minuti dalla fine, si prospettava lo spettro della monetina, perché all'epoca i tiri di rigore non erano previsti. E qui avvenne il miracolo: Boninsegna distilla le ultime energie, scatta, dribbla, crossa al centro e Rivera in posizione di centravanti infila di piatto, impassibile. I tedeschi sono impietriti, gli azzurri sfatti e increduli, lo stadio in delirio, e le nostre case illuminate: una partita affrontata con l'usuale cautela, dopo novanta minuti di melina, e trenta di supplementari al cardiopalmo, era stata vinta, come la battaglia di Midway, in pochi attimi di straordinario valore. La gente uscì di casa in piena notte, ci furono abbracci, brindisi, cori, e purtroppo alcuni infarti. In Germania qualche nazionalista ubriaco bruciò le macchine dei nostri emigrati. I giornalisti sportivi si scatenarono nelle iperboli. Il più noto, Gianni Brera, evocò nella sua cronaca tutti i componimenti della metrica classica, l'epinicio, il ditirambo, l'esametro, il peana e il novenario italiano. Mancava solo il trimetro giambico scazònte e noi ventenni saremmo ripiombati negli incubi dei nostri severi anni liceali. Più conciso ma non meno efficace fu Giorgio Lago, di cui abbiamo virgolettato, con riverente memoria, qualche geniale battuta.
L'ILLUSIONE
Nell'esaltazione coribantica della vittoria, gli italiani ritrovarono persino la bandiera, messa in soffitta dalle contestazioni del 68. Chiunque la esponesse era infatti tacciato di eversione fascista, e anche lo stendardo del PCI, dove la falce e il martello coprivano una modestissima fetta di tricolore, era visto con diffidenza. Nei cortei studenteschi erano consentite solo le bandiere rosse, spesso integrate con distintivi trotzkisti, guevaristi, maoisti o anarcoidi. Eppure quella notte le piazze furono invase da uno sciame di vessilli patriottici, che per un attimo ci illusero di una ritrovata coscienza nazionale. Fu, appunto, solo un'illusione, perché poco dopo sarebbe iniziata la fase più atroce del terrorismo e il tricolore sarebbe stato subito relegato in soffitta. Riapparve cautamente vent'anni dopo, quando la minaccia secessionista di Bossi suggerì ai politici un simbolo ostensibile dell'indivisibilità repubblicana. Oggi è esibito orgogliosamente persino dagli ex sessantottini ed è impiegato anche per fini eteronomi, come nelle mascherine antivirus. Da buoni cittadini vorremmo dire che è consolante che l'esibizione della nostra bandiera non sia limitata alle vittorie sportive, e che oltre ad aderire al naso e alla bocca sia incollata al nostro cuore. Ma da scettici osservatori dei nostri costumi sappiamo che il fanatismo è sempre in agguato, e la nostra volubilità è pari alla nostra sfrenata fantasia.
E tuttavia, quando ritorniamo con la memoria a quella partita di mezzo secolo fa, sentiamo che l'entusiasmo e l'orgoglio non furono dettati soltanto dal tifo del pallone.

Per un attimo il Paese gustò la gloria di avere sconfitto - pacificamente e lealmente - un avversario che sembrava più robusto nel fisico, più preparato nella tecnica, più determinato nell'azione e più convinto della supremazia. L'eterno e ingiustificato complesso di inferiorità che la terra di Leonardo, di Galilei e di Michelangelo nutre nei confronti della patria di Goethe, di Kant e di Beethoven per un attimo svanì, e noi tutti ci sentimmo fraternamente uniti sotto il tricolore, sia pure per merito di Boninsegna, di Rivera a di Gigi Riva.

Ultimo aggiornamento: 14:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA