Cessione Roma, la squadra è più di un club e chi arriva paga anche questo

Lunedì 30 Dicembre 2019 di ​Piero Mei
Cessione Roma, è più di un club e chi arriva paga anche questo

La Roma è “més que un club”, come dicono i catalani che però, beati loro, parlano del Barcellona. Ha dunque bisogno di “innamorati”. Che siano italiani, come furono Dino Viola o Franco Sensi, i presidenti degli ultimi due dei tre scudetti vinti.

O americani di diverso accento, come il “bostoniano” Pallotta o il texano Friedkin. Poco importa al tempo della globalizzazione che ha aperto in tutto il mondo gli stadi e gli spogliatoi a investitori venuti dall’altrove. E che la Roma sia “més que un club” lo indicano perfino le cifre: è la società di calcio per avere la quale è stata spesa la cifra più alta mai pagata in Italia, più dell’Inter, più del Milan. Anche se nella storia ha vinto meno. Anche se ha l’aria di un guscio vuoto: dov’è lo stadio? Dove un trofeo degli ultimi tempi? Ma è “la Roma”!

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La Roma, come la città da cui ha preso il nome, ha una storia e una tradizione da difendere. Non solo: da onorare. Il passaggio di proprietà delle azioni da un luogo all’altro dell’America, ed anche da un’immagine all’altra dell’America, Boston non è Houston, è un cambiamento. Verrebbe da dire, come quelli della missione Apollo, “Houston, abbiamo un problema”. Lo dissero nel film: nella vita reale la frase fu “Abbiamo avuto un problema”. Lo abbiamo avuto con la Roma di questi otto anni della prima rivoluzione americana, che è stata una rivoluzione continua, in un tourbillon di progetti e programmi (c’è differenza fra le due cose) a volte adeguati e convincenti, altre volte immaginari e strampalati.

E’ più che un club, la Roma: quasi la metafora della città originaria, un labirinto di buche, una distesa di rami stesi quando tira vento, un tracimare d’acqua quando piove, un bus che non passa mai, una scala mobile perennemente immobile, un affollarsi di topi e gabbiani che vivono di “monnezza” e da un po’ i cinghiali fanno loro compagnia. Eppure, è sempre Roma, “quanto sei bella Roma”. La chiusura del sipario sullo spettacolo della squadra, che pure “domenicalmente” direbbe Trapattoni che è rimasto ancorato al vecchio palinsesto del calcio sta facendo una parte importante, è decisamente negativo.

La gestione che finisce sarà ricordata per non aver vinto nulla, ed anzi per aver perso quello che non doveva perdere, il derby di finale in Coppa Italia. Che amarezza sarà anche per il distaccato Pallotta, il più “assenteista” dei presidenti, un oceano fra lui e il popolo giallorosso, pensare che sì, la società avrà pure (come ha) trovato una struttura più moderna e digitalizzata, la disputa della Champions (a parte quest’anno) sarà pure divenuta una abitudine di pronta cassa, gli acquisti saranno pure stati in qualche caso azzeccatissimi, ma sempre troppo presto annullati da “vendite di necessità”, almeno così si conclamava. Che amarezza dover ammettere che si torna alle origini senza aver aggiunto nulla ai precedenti la cui cancellazione sembrava un “must”: l’ultimo trofeo è della “Roma dei Sensi”.

Ma non può esserci una “Roma dei Sensi”, o “ddei Viola”, o dei “Pallotta”. E neppure “dei Friedkin”. La Roma ripulita dei romani non è stata una buona idea, perché l’ha colpita al cuore senza darle un’anima. La Roma deve essere la Roma. “Ebbasta”. Dà un po’ di sapore il pensiero che la nuova gestione non prenda questa avventura semplicemente come un affare, l’Inter dei cinesi, la Fiorentina degli americani, il Milan del fondo internazionale, aspettando da qualche altra parte lo sceicco di Parigi o di Manchester. Roma è un “brand”. Ma non può essere solo questo la Roma che ha avuto capitani come Di Bartolomei, Giannini, Totti e De Rossi, figli suoi, un unicum mondiale, la pelle giallorossa.

E’ questo spirito di città che non può andare disperso. C’è un filo sottile che può tenere insieme il tutto della cosa nuova: Dan Friedkin è, fra l’altro, produttore cinematografico. Sa di Cinecittà, che era Hollywood sul Tevere, sa de “La dolce vita”, ne insegue la storia e le storie.

Sa, dunque, che la Roma è “més que un club”. Ecco: quello che è importante e che ne tenga conto. Che non può essere soltanto una partita doppia di entrate e uscite, di plusvalenze più o meno raggiunte con buoni acquisti (ce ne furono, anche se ce ne furono di pessimi) e calamitose e rapidissime vendite. Non si ricorda una plusvalenza che abbia mai segnato un gol alla Salah o impedito un gol alla Alisson. Dov’è il 10? Non è un ombrello: era Totti.
 


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