Sergio Tavcar, l'uomo che raccontava il basket: le avventure sportive nel libro della mitica voce di Tele-Koper Capodistria

Martedì 20 Settembre 2022 di Alberto Francesconi
SergioTavcar

L'appuntamento era per il sabato pomeriggio. Quando lo sport in Italia era confinato alla domenica e per i gol bisognava attendere Novantesimo minuto, bastava sintonizzarsi su Tv Koper-Capodistria perché agli appassionati si aprisse un universo parallelo fatto di calcio, basket, pallamano.

Le tv private ancora non esistevano e i giovani teleutenti erano disposti a sorbirsi le previsioni del tempo di Portorose e Murska Sobota pur di godersi ore di sport, cinema e (talora) i primi seni nudi sul piccolo schermo.

LE JUGO-CRONACHE
Tutto rigorosamente in bianco e nero, almeno nei primi anni, con lo sport a farla da padrone e le squadre divise fra Domaci e Gosti - in casa e ospiti, come recitavano le scritte delle formazioni in serbocroato o sloveno - con un denominatore comune che stava al microfono: Sergio Tavcar. Per 40 anni le sue cronache hanno dato colore alle immagini e vita ai personaggi che sudavano in maglietta e calzoncini: con un aplomb anglosassone, più che balcanico - Tavcar appartiene alla minoranza slovena italiana - che non lo faceva esultare al microfono, dove era in grado di invitare il pubblico a fare una pausa quando un cestista notoriamente poco preciso - Ratko Radovanovi (che chiuse la carriera alla Reyer) - si accingeva a tirare i tiri liberi che non avrebbero a suo dire cambiato il punteggio.
Con lo stesso approccio disincantato Sergio Tavcar porta da oggi in libreria L'uomo che raccontava il basket (Bottega errante edizioni), un diario di mezzo secolo di cronache sportive che raccontano i fasti, la crisi e la caduta della Jugoslavia. «Con l'occhio del cronista - spiega - tutti noi eravamo convinti ancora nel 1986 che il Paese stava per sfaldarsi. Morto Tito, con il risveglio dei nazionalismi non aveva senso che la Jugoslavia esistesse». Anche se sul rettangolo di gioco le squadre che la rappresentavano, fosse la Jugoplastika di Spalato, il Bosna Sarajevo o il Partizan Belgrado, avrebbero continuato per anni a dominare e a fornire campioni oltre oceano al basket Nba. E tutto grazie a un amalgama che, racconta Tavcar, prendeva il meglio dallo spirito delle singole nazioni jugoslave: il senso di superiorità dei serbi, l'ordine e l'attitudine al lavoro degli sloveni, il fisico dei montenegrini e il gusto per il gioco dei croati.

I PROTAGONISTI
Certo, erano altri tempi: nei campi di basket oltre cortina poteva capitare che un allenatore macedone, per ovviare all'espulsione a metà gara di un giocatore gravato di cinque falli, gli tagliasse i baffi e capelli negli spogliatoi per rimetterlo in campo nel secondo tempo con un altro nome e un altro numero di maglia: una scena degna del cinema di Kusturica o della roboante musica di Goran Bregovic. Ma lo sport narrato dal commentatore sloveno-triestino, che esordì improvvisando una telecronaca di hockey su ghiaccio, sport di cui conosceva a malapena le regole, era soprattutto ordine e logica. «Ho tentato - racconta - di capire con tutte le mie forze lo sport nella sua essenza, i meccanismi reconditi che stanno alla base di ogni successo».
Così i protagonisti del libro, da Kresimir Cosic Mirza Delibasic e Drazen Petrovic, per citare tre fra i più grandi cestisti ammirati da Tavcar, sono prima di tutto uomini che si formano sul campo, non estranei alle vicende geopolitiche della Jugoslavia d'antan, dove il passaggio da una squadra all'altra era spesso pilotato dalle segreterie federali di partito.

LO STRAPPO
Naturalmente, nel racconto di uno sport sullo scenario di un Paese che si è dissolto, c'è un prima e un dopo. Che, al di là di qualsiasi considerazione politica, viene visto con un pizzico di nostalgia, ma soprattutto con alcune constatazioni pratiche: dal punto di vista sportivo, nonostante l'export di campioni verso gli Usa o le squadre di Eurolega, sia continuato, i risultati delle squadre eredi di quella Jugoslavia appaiono nettamente inferiori rispetto al passato. Da un punto di vista etico invece, una volta archiviato lo choc della diaspora jugoslava, non tutto appare da buttare: «Una volta smascherata e frantumata la frusta retorica della Fratellanza e Unità - si legge - slogan storico del regime titoista, pian piano stanno uscendo i veri valori, quelli storici e culturali, che hanno sempre unito i popoli di lingua slava di questa regione dell'Europa. Il che, come detto, è un bene, un bene che darà sicuramente i suoi frutti a lunga scadenza».
Ma l'avvento del nuovo millennio ha portato anche un cambio di mentalità. E non solo oltre l'Isonzo: negli ultimi capitoli Tavcar nota la minore disponibilità al sacrificio, alla fatica, al rispetto dei valori dello sport. A cominciare dai settori giovanili: «La stupida ambizione e la cafonaggine dei genitori, la totale mancanza di ogni autorità morale sui ragazzi - scrive l'autore per spiegare la sua decisione di non allenare più i ragazzi come aveva fatto per lunghi anni - in definitiva l'incapacità di concepire una qualsiasi attività che non abbia riscontri materiali sono cose che non potrei sopportare».
A ciò si aggiunge l'evoluzione dello sport che, dalla cura della tecnica e della tattica - elementi che per l'autore caratterizzano il basket - ha finito per privilegiare puramente l'aspetto fisico e le prestazioni di atleti fisicamente più forti e potenti ma, forse, meno intelligenti rispetto ai campioni dello sport che riempivano i palinsesti della tv di Capodistria.

LA NOUVELLE VAGUE
Si spiega così l'idiosincrasia per il basket moderno targato Nba, che ora è pane quotidiano per gli amanti del basket in televisione. Ma in generale il mondo di Tavcar, che per il suo libro si è affidato ai vecchi appunti scritti, e che tuttora non possiede un telefono cellulare, è ora diametralmente agli antipodi del modo in cui oggi viene narrato lo sport in televisione: «Odio - taglia corto l'autore - questo modo di commentare lo sport. È una questione di ritmi televisivi: non si può urlare continuamente fantastico, bisogna lasciar parlare le immagini. Ormai, quando guardo una partita, azzero il volume del commentatore, lascio accesi i microfoni ambientali e mi faccio la telecronaca da solo. Che è poi quello che ho sempre sognato di fare fin da bambino. In questo senso posso dire di non avere mai lavorato nella mia vita».
 

Ultimo aggiornamento: 12:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci