E' morto Emmanuel-Mike Agassi, il papà del famoso Andre, il simbolo dei padri-padroni del tennis.
RISCATTO E RIBELLIONI
L'ambiente del tennis non ha mai creduto alla versione di Andre. Ha visto un padre estremamente appassionato, forse anche ossessionato come tanti alti papà convinti di essere più credibili di troppi allenatori-avvoltoi, il quale, a costo di inenarrabili sacrifici, ha accompagnato Andre nella parabola da film: dagli inizi difficili, dai weekend passando da un torneo all'altro alla guida di un camper con tutta la famiglia, fino all'estremo riscatto sociale. Lui, povero iraniano emigrato nell'Eldorado USA, respinto come pugile dopo due Olimpiadi con la bandiera dell'Iran, costretto ai lavori più umili, da portiere del Casinò Tropicana sulla favolosa Strip, avrebbe fatto leva sulla famosa racchetta proiettando suo figlio sù sù fino a trasformarlo in un milionario invidiato e corteggiato da tutti. Le reazioni del primo Andre erano le classiche ribellioni di un adolescente scontento, magari per forzare l'espulsione dalla odiatissima scuola? Forse.
André's father Mike has passed away at 90. Born Emmanuel Agassi, he was an Olympic boxer for Iran before emigrating to the US, settling in Las Vegas. Over-the-top demanding (read Agassi's memoir Open), he was a driving force behind his son's tennis careerhttps://t.co/DMTGnQIlQ5
— Christopher Clarey (@christophclarey) September 29, 2021
O forse facevano del suo provocatorio: giocava col viso truccato e le unghie smaltate, si decolorava i capelli, irritava il pubblico, irrideva gli avversari con smorzate e pallonetti, canzonava il cinesino Michael (Chang) chiamandolo mammina, mammina e la scimmia Pete (Sampras) perché portava spesso le braccia penzoloni e tirava sempre fuori la lingua mentre giocava.
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Andre odiava smaccatamente il papà cattivo almeno quanto amava la mamma, ma era stato proprio Mike ad allenargli il colpo d'occhio già nella culla, facendogli roteare sulla testa una pallina, lanciandogli dei palloncini sul seggiolone dopo averlo armato con una racchetta da ping pong legata al polso, e modificando poi una macchina lancia palle, il famigerato Drago della sua biografia, per ribattere 2500 palle al giorno, un milione l'anno. Era stato papà a convincere con la sua insistenza il maestro Bollettieri a concedere una borsa di studio a quel monello di figlio, aprendogli le strade di quell'istruzione che lui non aveva avuto. Certo, era sempre troppo duro ed eccessivo. Anche quando finalmente Andre sfatò il tabù Slam battendo Ivanisevic a Wimbledon nel 1992, lo rimproverò: «Non avevi motivo di perdere quel quarto set».
DISCESE E RISALITE
Papà, come tanti altri papà, sapeva. E pretendeva molto da quel figlio ribelle che, da bambino prodigio, aveva stupito il mondo ma si era arenato perché senza umiltà, disciplina, continuità e abnegazione del campione. Andre avrebbe imparato a sue spese. Dopo essere transitato per gli sconvolgenti su e giù umani e tennistici della sua esistenza, scadendo dagli inferi della classifica fino ad assurgere al numero 1, ai trionfi Slam, all'immortalità sportiva, grazie ai duri allenamenti con Brad Gilbert e Gil Reyes. Così papà è stato ripudiato e poi riabbracciato da quel figlio così particolare che alternava amori che più estremi non si può, come Brooke Shields e Barbra Streisand, e sperimentava i demoni della droga, sbandierando uno slogan che era diventato un boomerang: L'immagine è tutto. Un feticcio che doveva cadere definitivamente e clamorosamente come il taglio di capelli a zero e la confessione della calvizie nascosta per anni sotto un toupé, come tante altre debolezze. Papà era invece essenziale, diretto. Se n'è andato a 90 anni. Senza un bluff.