Fabrizio Frizzi, la sera della strage di Capaci non voleva andare in onda ma non venne ascoltato

Lunedì 26 Marzo 2018 di Mario Maffucci *
Fabrizio Frizzi agli esordi in Rai
La prima volta ci incontrammo davanti alla Casina Valadier. Era una mattina romana uggiosa, rischiarata dal sorriso di questo ragazzone allegro che conduceva Pane e Marmellata su Rai2. Da capostruttura dovevo fare i conti con lo scippo di Berlusconi, che aveva ingaggiato Baudo, Carrà e Bonaccorti alla Fininvest, così proposi a Fabrizio di fare un doppio salto e passare alla prima serata sulla rete ammiraglia.

Ero convinto che avrebbe funzionato perché era dotato di immediatezza comunicativa, empatia, era colto senza ostentazione, scrupoloso ma leggero. Non mi sbagliavo, perché è stato il volto e il cuore di una tv garbata. Il nostro è stato un rapporto profondo e senza tensioni. Collaborammo per Europa Europa, che in anticipo provava a guardare oltre i confini nazionali, La partita del cuore, Miss Italia, dove lui fu la garanzia per le mamme che gli affidavano le figlie, sapevano che le avrebbe trattate con grande rispetto. Rispetto è la parola che mi viene in mente più spesso pensando a Fabrizio. Per tutti, dal dirigente all’ultimo dei tecnici. Rispetto per gli ospiti e il pubblico. Quando nel ’97 condusse “Per Tutta la vita”, dove intervistava coppie disposte a raccontarsi, lui non affondava il colpo, non cercava a tutti i costi i dettagli morbosi, come accade oggi in altre trasmissioni. Ricordo l’emozione del debutto al Teatro delle Vittorie con “Scommettiamo che?” e l’orrore provato quando, la sera della finale, sabato 23 maggio 1992, arrivò la notizia della strage di Capaci. Né io né Fabrizio volevamo che il programma andasse in onda. Lo consideravamo irrispettoso, ma la direzione generale impose di andare avanti. A nulla servì il nostro parere contrario e lui, non per cinismo ma per senso di dovere, accettò.

Così come accettò di condurre da solo “Donna sotto le stelle”, quando Jo Champa diede forfait a poche ore dalla diretta dalla scalinata di Trinità dei Monti. Ero in guai seri, non avevo nessuno che potesse sostituirla, e lui, come nessun altro avrebbe fatto al suo posto, si prese la responsabilità di presentare da solo, per puro spirito di squadra. Fabrizio è il testimone esemplare del servizio pubblico. E questo non significa che non sostenesse le sue idee. Aveva punti di vista fermi e si faceva valere in azienda, ma senza innescare polemiche all’esterno. Sempre per questione di signorilità, di misura. Lui era così e così erano i suoi programmi. Quando Carlo Conti lo ha richiamato in quella puntata-staffetta de L’Eredità, dopo il malore che lo aveva colpito, ho pensato che fosse un gesto straordinario ma sono anche convinto che sia Fabrizio a provocare questi bei sentimenti, la sua generosità insegnava a ricambiare. Mai incontrata un’altra persona in grado di essere così rigorosamente professionale e al contempo così gioiosa. Considerando il suo patto d’amore con la tv, credo sia stato felice di vivere il suo secondo tempo in onda, fino alla fine. Era sempre pronto, io stavolta non lo sono affatto. Fabrizio aveva una passione per le corse automobilistiche, appena poteva stava in pista a Vallelunga, e insieme avevamo elaborato la teoria che una conduzione televisiva dovesse essere a più marce, con partenze, rallentamenti, accelerazioni, frenate. Mi piace pensare che non abbia spento il motore. Ci ha distaccati inforcando una curva, e sta stirando la quinta su un rettilineo, con quel gran sorriso contro il vento.
* Storico dirigente Rai
 
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