Danny Boyle parla della serie "Pistol" sulla band inglese
dal 31 maggio su Disney + e dice:
«Una storia che doveva essere raccontata»

Martedì 24 Maggio 2022 di Ilaria Ravarino
Un'immagine della serie "Pistol"

«Non è la storia che chiunque avrebbe voluto sentirsi raccontare. Ma è la storia che doveva essere raccontata». Così il regista Danny Boyle, 66 anni, ha sintetizzato - in un’intervista concessa all’inglese The Guardian - il senso di Pistol, la miniserie in sei puntate sulla discussa band britannica, i Sex Pistols, distribuita da Disney + dal 31 maggio. Secondo tentativo di trasformare in fiction la vita molto punk del gruppo (nel 1986 ci provò Alex Cox, con Sid and Nancy), il progetto si ispira all’autobiografia del chitarrista della band Steve Jones, Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol, in cui l’artista si racconta a partire dalla sua infanzia da incubo, abusato dal patrigno, fino alle prime apparizioni dei Pistols in tv, i ripetuti collassi, e la morte per overdose di eroina del bassista Sid Vicious, accusato dell’omicidio della compagna eroinomane Nancy Spungen.

«Nancy era malata di mente.

E in quel periodo non si aveva la stessa percezione del problema, come adesso - racconta l’attrice Emma Appleton, Nancy nella serie - È stato fin troppo facile parlarne come di una dark lady. Ma non è stata capita. Era solo una ragazzina, e merita giustizia». Nella serie anche Maisie Williams (la Arya Stark de Il Trono di Spade) nella parte dell’assistente del manager della band, Malcolm McLareng, e il 18enne Louis Partdrige, star di Enola Holmes su Netflix, in quella di Sid Vicious (per il ruolo ha dovuto imparare a suonare il basso perché Boyle insisteva che i protagonisti si esibissero veramente in scena). Travagliata la preparazione, tra il Covid che ha rallentato le riprese e una causa, intentata da John Lyndon (il vero nome di Johnny Rotten), contrario all’uso delle canzoni da parte di Disney, che produce la serie: causa persa e terminata con la “maledizione” lanciata dall’artista sui primi 40 secondi di trailer resi pubblici, «una favoletta borghese che non c’entra niente con la verità - ha detto - anche perché nessuno di quei rottami avrebbe avuto una carriera se non ci fossi stato io».

Provocazioni cui Boyle risponde con serena eleganza: «John è un genio, si sa che è impossibile come persona. Ma è vero, se c’era un talento là dentro era il suo. Io lo amo così come è e non mi aspetto che gli piaccia la serie. Anzi, voglio che la attacchi. Ne ha diritto. Non pretendo che all’improvviso cambi carattere per me». Quanto al fatto che a produrre ci sia la casa di Topolino, alle prese con antieroi, violenza gratuita, canzoni piene di riferimenti all’aborto e alla droga, «niente di strano. È il bello di lavorare con le piattaforme - dice Boyle - che non si spaventano delle complessità delle storie e non cercano di compiacere a tutti i costi il loro pubblico. Se la serie funzionerà dipenderà dalla capacità degli attori di interpretare quei personaggi e di renderli credibili e dunque, in qualche modo, anche empatici». Boyle, che si dice «fan dei Clash più che dei Pistols», spiega di essere stato convinto a partecipare al progetto pensando alla sua stessa adolescenza: «Avevo vent’anni nel 1976, cioè quel momento della vita in cui ti rendi conto che, anche se non vuoi diventare come tuo padre, qualcosa da lui lo erediterai sempre. Ecco, i Sex Pistols, con tutta la loro violenza, anche con la loro volgarità, dicevano: “e invece no”. Puoi essere e fare che cazzo ti pare. Se ti vuoi devastare, essere osceno, perderti, fallo. La vita è tua e puoi farci quello che vuoi».

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