John Lennon, 40 anni fa la sua morte: quei cinque colpi di pistola che affondarono un sogno

Domenica 6 Dicembre 2020 di Massimo Cotto
John Lennon, 40 anni fa la sua morte: quei cinque colpi di pistola che affondarono un sogno

Quarant'anni fa si fermava il mondo. Non solo quello del rock and roll. Si arrestava due volte. La prima alle 22.50, l'ora dello sparo. La seconda alle 23.07, l'ora della morte, durante il trasporto al St. Luke's Roosevelt Hospital di New York. James Moran, uno degli agenti che lo caricano in macchina per portarlo velocemente al pronto soccorso senza attendere l'ambulanza, gli chiede, per cercare di non fargli perdere conoscenza: «Sei New York?».

L'uomo ricoverato sul sedile posteriore della macchina della polizia risponde debolmente: «Sì». Sì, era John Lennon, l'uomo che, insieme a Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, aveva creato il più spettacolare sottomarino giallo della storia del rock, quello dove tutti quanti noi abbiamo continuato a sognare, a credere che quella musica non fosse solo musica, ma una cittadella dell'eterna adolescenza dove saremmo potuti rimanere giovani in eterno. L'uomo che, con le sue canzoni pacifiste, ci aveva fatto immaginare un mondo diverso, senza steccati, che chiedeva potere alle persone e alle donne.


IL TERRORE
Se l'8 dicembre 1980 si fermava il mondo non era solo per la grandezza assoluta di uno dei più grandi talenti che abbia solcato la musica popolare. C'è anche un altro motivo. Quella di John Lennon fu la prima morte violenta nella storia del rock. Da quel momento, le rockstar capiscono che non hanno nessuna armatura che possa proteggere dalla follia. David Bowie racconterà di essere salito sul palco di Broadway per una replica di The Elephant Man, il giorno dopo l'uccisione di Lennon, terrorizzato. Continuava a guardare le due poltrone vuote in prima fila, quelle che dovevano essere occupate da John e Yoko, e la terza poltrona vuota accanto a loro, quella per cui aveva comprato il biglietto Marc Chapman.
Marc Chapman, l'assassino di John Lennon, il suo idolo. Nel pomeriggio si era fatto firmare da lui una copia del suo ultimo album, Double Fantasy. Quando, alle 22.50, John e Yoko scendono dalla limousine che li ha riportati a casa, Chapman è lì. Ha appena fatto quattro chiacchiere con Josè Perdomo, il portiere del Dakota Building. Lennon si avvicina, ha in mano i nastri di una canzone alla quale sta lavorando.

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IL GIOVANE HOLDEN
Chapman dice: «Mr. Lennon?«. John si volta. Chapman si mette in postura da combattimento (in seguito dirà che voleva essere certo di non sbagliare mira) e spara cinque colpi. Due colpiscono Lennon alla schiena, due alla spalla. Il quinto colpo va a vuoto. Tutti i proiettili trapassano il corpo dell'ex-Beatle e finiscono su una barriera frangivento di legno e vetro. Lennon sale i gradini che lo separano dalla reception. La guardia notturna, Jay Hastings, preme subito il pulsante dell'allarme collegato con la più vicina stazione di polizia. Marc Chapman, per dare un ulteriore tocco a una storia che già sa di incredibile, si mette a leggere Il giovane Holden. Quando Perdomo gli chiede, disperato se sa che cosa ha appena fatto, lui, serafico, risponde: «Sì, ho sparato a John Lennon».

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JAMES TAYLOR
È una storia assurda e tragica, alla quale potremmo aggiungere molti altri elementi (poco tempo prima Chapman aveva avvicinato James Taylor e parlato a lungo con lui), ma non cambierebbe la sostanza. Il profeta del pacifismo, l'uomo di Imagine e di mille bellissime canzoni coi Beatles era morto, ucciso da un pazzo che sperava di essere ripreso mentre lo faceva. Fine del sogno. Fine dei sogni. Il sogno più prosaico che i Beatles potessero rimettersi insieme e quello più nobile che il rock potesse cambiare il mondo. Perché questo è quello che John Lennon pensava. Una canzone può fare tutto: renderti felice, farti piangere, riflettere, pensare, gioire, cantare, motivare. La canzone, diceva Lennon, è quella cosa che, dopo che l'hai ascoltata, non sei più come prima, in un modo o nell'altro. Lennon era quello che diceva: «Quando fai qualcosa di bello e nessuno lo nota, non essere triste. Il sole ogni mattina offre uno spettacolo bellissimo eppure la maggior parte del pubblico sta ancora dormendo».
Lennon era quello che, in un tema a scuola su cosa volesse fare da grande, aveva risposto: «Voglio essere felice». La maestra aveva detto che non aveva capito il tema, lui anni dopo dirà che era lei a non aver capito la vita.
Felice lo è stato, Lennon. Certo, felice come lo possono essere gli artisti, sempre sul punto di deragliare anche quando sono fermi in stazione. Per cercare la felicità, Lennon ha persino distrutto la cosa più simile al Paradiso che era riuscito a creare: i Beatles. Quando incontra Yoko Ono e lei lo convince che per stare bene non deve accettare compromessi e nemmeno farsi condizionare dal successo, perché il successo è trovare se stessi e non trovarsi in testa alle classifiche, lui la ascolta.


DISINTEGRAZIONE
Accelera il processo di disintegrazione che già si era avviato da tempo, non fa nulla per ricomporre le fratture con l'altro genio della lampada, Paul McCartney, inevitabili in una situazione dove «i Beatles sono più famosi di Gesù». E se ne va, pur sapendo che nulla sarebbe più stato come prima. In tanti hanno provato l'esercizio (sterile) di capire quanto ci fosse di Lennon e quanto di McCartney nelle canzoni dei Beatles, al di là del fatto che ogni brano usciva firmato da entrambi. Si possono azzardare ipotesi (sterili) sul fatto che Paul fosse inarrivabile nel confezionare le melodie e John nel siringare quel pizzico di follia ritmica, a volte destrutturata. Insomma, uno più pop (nel senso nobile del termine) e l'altro più rock. La realtà è che ai Beatles non puoi fare l'analisi logica nemmeno quando sai che una canzone è stata scritta interamente da uno dei due (o da Harrison, nei casi rari, ma folgoranti in cui l'ispirazione è andata a buttarlo giù dal letto).

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LE INCLINAZIONI
Per me, in sintesi, non ci sarebbe stato Lennon senza McCartney e viceversa. Si compenetravano anche quando uno dei due era assente, perché l'altro ne conosceva le inclinazioni. E, sebbene nessuno lo dica, le assecondava, magari malvolentieri, ma lo faceva, perché ognuno conosceva la sublime grandezza dell'altro. Senza Lennon non ci sarebbero quindi stati i Beatles. Senza il Lennon solista (a volte troppo attratto dallo sperimentalismo, sotto influenza di Yoko) non avremmo capolavori come Imagine, Mind Games, Jealous Guy, Woman, Cold Turkey, War Is Over, Mother, Instant Karma, Power To The People, Oh My Love e Working Class Hero. Senza Lennon non avremmo metà della musica degli ultimi 50 anni, Oasis in testa. L'unico problema è che, dall'8 dicembre 1980, noi siamo senza Lennon.

 

Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 01:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA