Il jazzista Enrico Rava: «Invento duetti immaginari. L'altro giorno ho “suonato” con Miles Davis»

Mercoledì 1 Aprile 2020 di Simona Antonucci
Il jazzista Enrico Rava

«Tecnologicamente sono zero.

Non sono assolutamente in grado di fare dirette da casa, collegamenti online, impossibile. Non ho neanche whatsapp. Partecipo al telefono, a qualche trasmissione. Volentieri. Ma niente di più. Anche perché la tromba è uno strumento che ama la compagnia. E qui da solo posso soltanto inventarmi duetti immaginari. L’altro giorno ho “suonato” con Miles Davis. Poi ho “rincontrato” Wynton Marsalis e ho “improvvisato” assieme a Chet Baker».

Enrico Rava, 80 anni, uno dei più grandi jazzisti viventi, è nella sua casa di Chiavari
«cercando di rendere gradevole la prigionia». Il mare è a pochi metri «ma non lo vedo dalle finestre e non sono mai uscito neanche per fare la spesa. Ho un’età». Le sue registrazioni leggendarie (ben quindici per l’etichetta Ecm), sono parte del tesoro che la Fondazione Musica per Roma propone sul web con #iorestoacasa del jazz. Un calendario cui hanno aderito anche Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, Paolo Fresu, Enrico Pieranunzi, Stefano Di Battista e Roberto Gatto.

Nostalgia? Malinconia?

«No. Non sono un tipo che guarda al passato con nostalgia. Ho tanti ricordi. Durante la guerra, c’ero. Nel ‘68, c’ero. Negli anni della guerra in Vietnam ero a New York. Quando nacque il free jazz, suonavo. Posso mettere mettere insieme un’enciclopedia di storia e di storie. Un po’ le ho raccolte per un’autobiografia pubblicata da Feltrinelli. Ma non vivo di ricordi. Nonostante l’età, vivo di presente, mi piace suonare e spero di ricominciare presto».

Molti paragonano i giorni del Coronavirus a una guerra. Lei, che c’era, che cosa ne pensa?

«La guerra è finita quando avevo cinque, sei anni. Oggi, sono cosciente di quello che sta succedendo. Da bambino no. Sentivo gli aerei, lo scoppio delle bombe, le mitragliate dei tedeschi. Erano suoni cui mi ero abituato. Assurdo, ma in quei giorni, il mio terrore non erano i soldati, ma le oche del cortile. Eravamo ospiti in una cascina, a Villa Franca, vicino Torino. E per raggiungere gli amici dovevo attraversare una famiglia di oche che ce l’aveva con me. Come mi vedevano mi inseguivano per beccarmi. Uscivo soltanto se mia nonna mi prendeva per mano».

Se dovesse immaginare un duo con il virus che musica suonerebbe?

«La fuga. Anche perché la musica non ama la paura. Esistono però musiche scritte per fare paura. Ma quelle sono le colonne sonore dei film. Mi viene in mente quel genio di Krzysztof Komeda che compose i motivi per Rosemary’s baby di Polanski. Brividi. Oppure le note di Miles Davis per Ascensore per il patibolo di Louis Malle. Geniale. Contrabbasso, accordi diminuiti. Fu la sua unica colonna sonora. E rese un film tutto sommato mediocre in un capolavoro assoluto. Le sue intuizioni, le trovate divennero parametri imprenscindibili per chi suonava allora. Pazzesco».

Lei da anni viene chiamato il Miles Davis italiano. Le piace?

«Una stupidaggine. Anche perché alla mia età, vorrei essere me stesso. Ma soprattutto perché è un paragone che fa ridere i polli. Miles Davis, Dizzy Gillespie, Duke Ellington, Louis Armstrong appartengono tutti a un’altra categoria. Sono quelli che hanno inventato questa musica. Hanno fatto qualcosa che prima non esisteva. Immagini Charlie Parker, Miles Davis. Si presentavano negli anni Quaranta, Cinquanta, nei locali di New York davanti al pubblico con dei suoni mai concepiti in passato. Ma con una carica comunicativa così forte da riuscire a catalizzare l’attenzione, scatenare emozioni. Certi personaggi non sono ripetibili, anche perché appartengono a momenti irripetibili. Cavour, Garibaldi, potrebbero mai tornare? Noi siamo bravi interpreti. Ma non abbiamo creato nulla».

Lei ha scritto un libro che aveva come sottotitolo
La storia del mio jazz. Non si riferiva a un genere che ha inventato lei?
«Quello fu un errore della casa editrice. A me non piaceva quel titolo. Anche perché il mio jazz non esiste. Secondo loro serviva a identificare il genere. Tant’è che risposi: mettete una fascetta specificando che non è un saggio sul gioco delle bocce. Il risultato è che nelle librerie finì nella “riserva” dei libri musicali. Di solito collocata in fondo ai negozi. Dove non ci capita nessuno, tranne quelle persone che decidono di trascorrere qualche ora in solitudine e invece di andare in montagna si rintanano tra gli scaffali dei libri musicali».

A proposito di libri: è leggendario il suo amore per Proust, definito da lei, l’unico scrittore jazz. Perché?

«Non avrei mai detto una cosa del genere se non mi avessero provocato, definendo la Beat Generation, Kerouac, Ginsberg, una generazione jazz. No. A loro piaceva l’atmosfera fumosa del jazz, i locali con le prostitute e la droga. Proust, invece, era un autore jazz. Lui utilizzava frammenti di memoria, frasi già dette, per ripeterle in mille altri modi. Passava da un discorso a un altro, con una logica d’improvvisazione che assomiglia molto al nostro modo di suonare».

Il suo modo di suonare, di parlare, di improvvisare è diventato materia di uno dei personaggi cult di Fiorello, Paolo Fava. Vi siete mai più sentiti?

«Non è più capitato. Mi divertiva molto la sua caricatura. La cosa buffa è che per imitarmi si comprò una tromba e durante le registrazioni provava a suonare tormentando tutta la troupe. Ma se devo essere sincero il più bravo in assoluto a imitarmi è Stefano Bollani. Una volta stavamo attraversando l’Italia insieme per raggiungere un qualche posto al Nord per un concerto. Guidavo io, a 200 cento all’ora. Mi chiamarono per un’intervista. Feci un cenno a Stefano per fargli capire che doveva vedersela lui, altrimenti andavamo a sbattere. Perfetto. Non solo nel rifare la mia voce. Ma anche nello scegliere le parole e i concetti. Colloquio da manuale. Non se ne accorse nessuno. Avremmo dovuto suonare insieme. Non ce n’è di pianisti come lui. Ma è tutto fermo».

Quali progetti tiene in stand by?

«Il mio tour, vari concerti. Ma soprattutto un’operazione all’anca. L’abbiamo dovuta rimandare. Ma così, ogni passo è una coltellata. Aspettiamo e cerchiamo, però, di tradurre questo virus in un segnale. Lo scenario intorno è spaventoso. Siamo 7 miliardi. Dobbiamo capire come si può andare avanti»

Ultimo aggiornamento: 2 Aprile, 08:37 © RIPRODUZIONE RISERVATA