​Verdone: «Ennio Morricone e Sergio Leone: due miti, un’anima»

Martedì 7 Luglio 2020 di Carlo Verdone
Verdone: «Ennio Morricone e Sergio Leone: due miti, un anima»

Abbiamo perso un grandissimo artista, un grande musicista, forse l’italiano più popolare nel mondo. Di certo con Fellini quello che nel mondo del cinema tutti conoscono e apprezzano. Perché a dire il vero io, frequentando giurie e festival, anche Hollywood talvolta, non ho mai sentito qualcuno non dirsi estasiato per il talento espresso dal Maestro. A differenza di Fellini, però, la capacità di attrarre a sé le sensibilità più raffinate del rock, del rap lo ha reso più popolare tra i giovani di tutto il pianeta. Io ho perso l’artista che ha reso il mio debutto nel cinema perfetto, un battesimo che potevo solo sognare e che Sergio Leone, ha reso possibile: con quel fischio un po’ malinconico, poetico di Leo che sale via Garibaldi a Trastevere, la sua Trastevere Un sacco bello si chiudeva nel modo più giusto, perfetto. La statura di questo Grande Romano, però, sta nella serietà con cui ha cominciato il suo viaggio per la nostra città: gli studi a Santa Cecilia, la tromba. Non uno che si improvvisa sulla scia di un altro grande compositore, ma la strada più lunga: allievo di Goffredo Petrassi e tra i creatori di un gruppo come la Nuova Consonanza. Musica per pochi eletti, che ha sempre amato e ha sempre rivendicato, per uno diventato poi una grande icona pop. Cercava la sua originalità e finiva per trovarla sempre e soprattutto nella sua Roma: preparazione e aria dei quartieri che ha frequentato, delle case che ha vissuto. 

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La sua grande preparazione ha fatto sì che il Maestro avesse il grande talento di lavorare a 360 gradi, una tale sicurezza e competenza dal punto di vista dell’arrangiamento musicale che lo portava ad aiutare a diventare mito canzoni come quelle di Mina (Se Telefonando) o Edoardo Vianello (Abbronzatissima) o Morandi. Con un grande eclettismo cui ha dato sfogo soprattutto quando dai tempi mitici della Rca, grande ritrovo della musica leggera italiana degli anni Sessanta e Settanta, fece il grande salto a Cinecittà.

E qui, ritrovando l’amico di sempre, dei giorni insieme da bambini, Sergio Leone ha dato sfogo a tutta la sua creatività: innanzitutto con la Trilogia del dollaro. Lui e Sergio Leone erano una stessa anima divisa sottilmente in due. Due grandi romani diversissimi, ma per me impossibili da pensare scissi: Ennio senza Sergio o Sergio senza Ennio. Ognuno ha esaltato il lavoro dell’altro. Morricone ha dato grandezza, potenza e soprattutto ironia ai film di Leone; Leone ha dato le immagini giuste per evocare quei temi al musicista amico. Ci sono temi come quello del Cimitero ne Il Buono, il Brutto e il Cattivo, che sono assoluti nella storia del cinema mondiale. E l’introduzione di strumenti musicali come lo scacciapensieri e il fischio divenuto marchio di fabbrica. Un’intuizione tutt’altro che banale, quella, che utilizzò con me: rendeva perfettamente la solitudine del personaggio centrale del film. Nella Trilogia di Leone era la solitudine di Clint Eastwood; è la solitudine di Leo, del Bullo nel mio film. Il fischio è anche scanzonato, come quelli che ascoltavano lui e Leone a Trastevere nei loro anni giovanili. Nei miei film un tema entrato nel cuore della gente, regalando la poesia e malinconia di un’estate solitaria. Ha esaltato i miei film. 

Ennio Morricone è stato molto ispirato da Ottorino Respighi, ce lo disse proprio in quella intervista fatta al Messaggero un anno fa: la trilogia romana del compositore è il disco italiano più venduto in America. Quell’orchestrazione imponente ha suggestionato molti compositori dei grandi film hollywoodiani, come Miklos Rosza, il grande compositore ungherese dei temi di Ben Hur; come lui anche Bernard Herman compositore di Hitchcock e John Williams. Molti di loro in Morricone hanno trovato un seguace ispirato di questo modo di comporre. C’è ancora un altro romano dietro il grande romano che ora piangiamo.

Io con lui ho avuto un impatto pazzesco: Leone mi dice un giorno che andavamo a cercare l’ultimo componente della troupe. Entriamo nella sua villa all’Eur e lui mi dice: andiamo da quello che ha la dichiarazione dei redditi numero 3 d’Italia, una battuta che ho inserito poi in Compagni di scuola. Mi trovo Morricone davanti e provo a spiegargli il film, i tre personaggi, lui chiede il copione. Il giorno dopo mi convoca e mi dice: «Ho colto molta poesia nei tuoi personaggi: c’è molta solitudine». E Leone irrompe: «Ma fammi una cosa poetica, non depressiva». «No, Sergio, saremo ironici». Allo studio Trafalgar di piazzale Clodio, a fine riprese ascoltavo l’orchestrazione e dissi tra me e me: «Ha reso perfetto il film». Con una musica che doveva essere secondo Leone «scepliniana» con quella pronuncia romana accentuata del regista.

Lui rifiutò di trasferirsi a Hollywood, lui doveva tutto a Roma, alla sua poesia. In California non avrebbe avuto la stessa ispirazione. E qui l’ho molto ammirato: coraggioso, saggio, rigoroso con se stesso. Come ammiro, questo suo essere un romano non facilone in nulla, è stato un enorme professionista che ha capito che la preparazione è tutto. Sarà difficile trovare un compositore amato così tanto nel mondo: lui è entrato nel cuore del mondo. Resterà immortale come Respighi, anche di più. A lui, lo remixano anche in discoteca, è nelle suonerie dei cellulati con l’urlo indiano “ah ee ah ee ah”. Roma la viveva con molto rigore. «Roma non è più quella di Un sacco bello», gli dicevo io. E lui un po’ meno duro di me con i nostri vizi mi diceva: «Io la guardo dall’alto, non la trovo cambiata. Ma a me basta stare in alto, per questo scelgo gli attici. Che poi l’ispirazione mi arriva». Hollywood poi gli ha restituito qualcosa, non il pianto per l’ingiustizia di Mission senza l’Oscar.
 

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