Beatles, nel 1969 a Londra l'ultimo concerto che chiuse un'epoca

Mercoledì 30 Gennaio 2019 di Marco Molendini
Beatles, nel 1969 a Londra l'ultimo concerto che chiuse un'epoca

In quel mezzogiorno freddo, grigio e molto britannico del 30 gennaio 1969 le voci dei Beatles gridarono da un tetto londinese che i Roaring Sixties erano finiti. La più ammirata, idolatrata, rimpianta delle rock band provava a restare viva, ma si stava sfaldando, consumata dal successo fuori misura, dal caos personale, dalle inevitabili conseguenze di una stagione destinata a chiudersi, lasciando spazio alle chitarre acide dei Led Zeppelin che annunciavano un decennio di tutt'altra pasta e colore.

 




La Swingin' London, di cui erano stati la colonna sonora, modello esistenziale e riferimento estetico, era al tramonto, e non potevano che finire anche i Beatles. Sul tetto degli uffici della Apple Corps in Savile Row c'erano saliti per un'ultima idea creativa, registrare un concerto per un nuovo film. Scelta arrivata dopo aver scartato altre bizzarre proposte, perfino il deserto del Sahara era stato preso in considerazione, come le Piramidi e un anfiteatro romano a Tunisi. Fare il film e fare anche un po' di rumore, magari per dare una svegliata al loro entusiasmo: sennò perché scegliere il centro di Londra all'ora del break per pranzo?

IL RUMORE
E rumore fu: il traffico della città inevitabilmente si bloccò e la polizia, chiamata da alcuni vicini che non gradivano il frastuono che arrivava da quella terrazza, intervenne bloccando la performance dopo 42 minuti, buoni per infilare le nuove Get Back, I Want You (She's So Heavy), Don't let me down, I've Got a Feeling, One After 909, Dig a pony più una citazione del classico country Danny boy, dell'inno God Save the Queen e dello standard di Irving Berlin A Pretty Girl Is like a Melody. I Fab Four tornavano a suonare a quasi tre anni di distanza da quando avevano deciso di dare basta ai concerti, dove venivano puntualmente affogati dall'isteria collettiva del pubblico. E non l'avrebbero più fatto, perché non ne avevano voglia, perché erano cresciuti, perché il tutti per uno era diventato un ognuno per sé, perché si sentivano grandi.

Suonarono, forse si divertirono (a sentirli la musica è splendida), rimpiansero quel tempo, almeno così sembra a guardarli nelle riprese del regista Michael Lindsay-Hogg (figlio naturale di Orson Wells) che sono finite nel documentario Let It Be: c'è Paul con la sua aria stupita che non avrebbe mai voluto togliersi la divisa da Beatles, John con la pelliccia di Yoko addosso perché faceva freddo ma anche perché ormai aveva cambiato abito nella sua testa, George che aveva portato il tastierista Billy Preston nella speranza di animare il quartetto, e che al tempo ce l'aveva proprio con l'amico John e la sua invadente quasi signora (il matrimonio fu celebrato due mesi dopo), Ringo, anche lui con un cappotto dell'allora moglie Maureen Cox.

Era già finita, anche se sarebbero ancora usciti due album, Abbey Road e Let it be. Litigavano su tutto, a cominciare dai soldi, dai conti falliti della Apple, dal manager. Dopo un anno divorziarono davvero, ma da settembre si erano già detti addio e John a luglio pubblicava con Yoko il suo Give peace a chance (che però nei crediti è firmato ancora dalla ditta Lennon-McCartney).

Finì così, anche se tutto il mondo ha continuato a sperare che potessero ritrovarsi, o almeno lo ha sperato fino al colpo di pistola davanti al Dakota nel dicembre del 1980. Eppure la Beatles story non è mai finita: da quando si sono sciolti, così dicono le statistiche, hanno prodotto quasi due miliardi di profitti, un flusso alimentato da una scia nostalgica che non conosce crisi. Eppure, allora non potevano che lasciarsi. E il Rooftop Concert, del 30 gennaio di 50 anni fa è l'ultima testimonianza visiva di quei ragazzi diventati baronetti ma non ancora trentenni, che si sentivano grandi e che non stavano più dentro a quella dorata fabbrica di canzoni.
 

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