Massimo Lopez narra la sua vita: «I pranzi con Walter Chiari, le patate cucinate da Mina... Anna Marchesini? Una folgorazione»

Mercoledì 30 Settembre 2020 di di FRANCESCO MUSOLINO
Massimo Lopez narra la sua vita: «I pranzi con Walter Chiari, le patate cucinate da Mina... Anna Marchesini? Una folgorazione»
 Avrebbe potuto fare il meteorologo o il campanaro. Ma in realtà, Massimo Lopez ha sempre avuto nel sangue il richiamo del palcoscenico e sin dal primo anno al teatro stabile di Genova – correva il 1976 – è grato al destino. Del resto, a undici anni pranzava con Walter Chiari, faceva merenda con Corrado e un giorno Mina cucinò per lui un piatto di patate. Una carriera di successi e notorietà televisiva, dagli anni della comicità effervescente del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi, passando per la musica e il varietà, sino a quell’incontro con Massimo Troisi, fra risate, il progetto di un film e gli inevitabili rimpianti. Massimo Lopez oggi si racconta con delicatezza in “Stai attento alle nuvole. Un viaggio di vita e di famiglia”, un romanzo autobiografico – scritto con il giornalista e docente presso l’Università Federico II di Napoli, Sante Roperto - da oggi in libreria per Solferino (pp.256 €18). Un libro pieno di emozioni, memoir di aneddoti e ricordi che principia con la scoperta di un baule pieno di lettere e diari di sua madre Gigliola e di sua nonna Titina, tramite il quale Lopez ripercorre le proprie tracce familiari lungo la penisola – Napoli, Milano, Foggia sino a Roma - senza mai perdere la voglia di sognare. Con due certezze: «Sul palcoscenico sono me stesso e se tornassi indietro, rifarei tutto daccapo».

Tutto comincia con la scoperta di un baule pieno di lettere di sua madre?
«Proprio così. Da tanto tempo volevo scrivere questo romanzo autobiografico, rivivendo la grande complicità con mia madre».

Lei ha viaggiato tutta la vita. Parte da qui il bisogno di trovare un centro di gravità?
«Sono nato ad Ascoli Piceno, da una famiglia di Napoli e ho vissuto a Foggia, Bari e Roma…ho cambiato continuamente scenario nella mia infanzia e di città in città, cambiando scuola e amici, ho affinato lo spirito d’osservazione, un elemento decisivo per il mio futuro sul palcoscenico passando per le primissime imitazioni».

Perché un romanzo autobiografico?
«Sarebbe stato più semplice scrivere un’autobiografia ma ho sempre pensato che la mia vita – fatta di incontri e coincidenze - somiglia ad una fiaba e con l’aiuto di Sante Roperto abbiamo trovato una affinità che mi ha permesso di mettermi a nudo, scrivendo a quattro mani».

Si è tolto la maschera?
«Sono stato un timido. Paradossalmente, è stato proprio il mestiere dell’attore, il dover indossare una maschera di volta in volta, che mi ha permesso di liberarmi. E sul palcoscenico sono me stesso al cento per cento».

Un libro ricco di aneddoti a partire da quei pranzi con Walter Chiari. Come andò?
«Avevo undici anni, ero un grande fan di Walter Chiari e senza pensarci troppo ho iniziato ad appostarmi nell’androne del palazzo dei suoi genitori, come fossi il portinaio. Ogni volta che passava di lì, lo fermavo e un giorno mi propose di mangiare un piatto di pasta e mentre eravamo a tavola – io, Walter Chiari e i suoi genitori – gli facevo mille domande. Era una cosa spontanea, pranzavo lì anche quando lui non c’era. Un giorno, anni dopo, lo incontrai e ricordammo quei pranzi…».

Pranzo con Walter Chiari e merenda a casa di Corrado Mantoni. Era un tipo di celebrità diversa?
«Corrado abitava nel palazzo di fronte, in via Igea, anche con lui andavo a caccia di curiosità, il mio è stato una sorta di apprendistato in cucina. Oggi, invece, abbiamo paura di perdere tempo, ossessionati dal dover riempire tutti gli spazi. Sì, forse avremmo bisogno di un po’ di silenzio e concentrazione per ripensare alle cose davvero importanti della vita».

E quella volta che la chiamò Mina e le cucinò un piatto di patate, a Lugano?
«Un’altra cosa pazzesca. Mi telefonò, proprio lei senza alcun filtro o intermediario. Ovviamente pensavo fosse uno scherzo e invece volai a Lugano per incontrarla e poi le chiesi di avverare il sogno di mia madre. Le telefonai e gliela passai al telefono. Ecco, uno dopo l’altro i miei desideri si sono avverati, proprio come questo baule saltato fuori dal nulla che mi ha permesso di cominciare un viaggio».

Ha studiato al liceo Pasteur e scrive: “Roma, punto di partenza e punto di arrivo”. Che rapporto ha con la città in cui vive?
«Roma è Roma, una città meravigliosa che ti lascia senza parole. Cercando le mie radici sono andato ovunque a caccia di qualcosa che mi appartenesse. Roma può apparirmi scontata perché ci vivo, ma significa che ciò che mi lega a questa città non scomparirà mai. Qui ho iniziato la mia carriera da attore e qui, dopo le tournée, faccio sempre ritorno. Roma è il mio approdo, il luogo da cui comincia la mia nuova vita».

E poi c’è stato un pranzo da cui nacque una grande amicizia. Con chi?
«Con Massimo Troisi. È stato un amico fraterno, ci siamo trovati subito sui ritmi lenti e la pigrizia, ridendo delle stesse cose. Dovevamo fare un film, l’aveva ideato lui, si doveva chiamare “Il Sindaco di Collazzone” e io avrei interpretato questo bizzarro primo cittadino che si costruiva le strade per conto suo. E poi avremmo dovuto fare un programma televisivo, “Massimo Ascolto”, in cui Massimo sarebbe stata la voce fuori campo che mi avrebbe dovuto suggerire in tempo reale cosa fare. Massimo aveva già registrato una puntata zero, avremmo lavorato fianco a fianco se, a fine primavera del 1994, non ci avesse lasciati».

Giorgio Albertazzi fu un suo maestro?
«Un altro di quei personaggi che seguivo sempre in tv. E nel 1976, all’esordio teatrale, ero al suo fianco con un ruolo per un “Fu Mattia Pascal”. Lui venne in camerino a motivarmi, come un coach. E non solo a 24 anni, ogni volta che lo incontravo mi regalava parole importanti sul mestiere».

Si sente fortunato?
«Estremamente fortunato. Il primo anno al teatro Stabile di Genova, mi ritenevo l’uomo più felice della Terra perché ero diventato un attore. Tornassi indietro, rifarei tutto».

Il cinema è un rimpianto?
«Non ho fatto cinema ma non mi mangio le mani. E poi non si sa mai nella vita, magari un bel film arriverà un domani».

Come nacque il Trio?
«Fu Anna Marchesini a pensare a me, quando negli anni Ottanta Tullio le propose di lavorare in un programma per Radio2 Liguria. Così accadde. Ancora prima, un pomeriggio in sala doppiaggio, conobbi Anna e fu subito intesa, scattò un amore. Era speciale, nei suoi occhi c’era un universo di passioni. La nostra amicizia è durata sino alla fine, ancora conservo tutti i suoi messaggi sino ad un mese prima della sua dipartita. Sono carichi di ironia e intelligenza. Anna era una donna potente, mai scontata».

Quando era piccolo, scrisse una lettera al se stesso del futuro: “Rimarrai come sei oggi? Avrai sempre la stessa innocenza verso gli altri e verso il mondo? O cambierai?”. Beh, oggi come risponde?
«Sono rimasto fedele.
Il semplice fatto d’averla scritta e conservata, mi ha mantenuto legato ai pensieri, al sentire del fanciullo. Non bisogna mai dimenticarsi di quello che si è stati».



 
© RIPRODUZIONE RISERVATA