Aida e Michael Jackson, tutti i colori del blackface nel saggio di Cassandro: esce “Calibano”, nuova rivista dell’Opera di Roma, mentre debutta al Costanzi il capolavoro di Verdi

Lunedì 30 Gennaio 2023 di Daniele Cassandro
Aida all'Opera di Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio, regia di Livermore, dirige Mariotti

Pubblichiamo in anteprima uno stralcio del saggio di Daniele Cassandro tratto dal primo numero di “Calibano”, rivista culturale dell’Opera di Roma diretta da Paolo Cairoli e pubblicata da effequ.

In libreria da martedì 31 gennaio il numero dedicato all’Aida (in scena al Costanzi dal 31 gennaio, con gli interpreti tutti dipinti in viso, ma nessuno è scuro) e al blackface, la pratica di tingersi la faccia di nero, ora bandita negli Usa perché considerata razzista. L’Aida l’anno scorso era stata al centro di polemiche per il blackface, con il caso del viso dipinto di Anna Netrebko. Tamara Wilson, nel 2019, rifiutò il trucco e così il soprano afroamericano Angel Joy Blue che nel 2022 rinunciò a interpretare Traviata perché l'istituzione veronese ha usato il blackface.

IL TESTO DI DANIELE CASSANDRO

Nel marzo del 1984, all’indomani dei Grammy Awards che hanno visto Michael Jackson vincere la cifra record di otto premi, la rivista americana Rolling Stone scriveva: «Quanto è davvero grande Michael Jackson? Sommate tutte le copie di Let’s dance di David Bowie, di Synchronicity dei Police, di Undercover dei Rolling Stones, di Colour by Numbers dei Culture Club, di Metal Health dei Quiet Riot e di Seven and the Ragged Tiger dei Duran Duran che siano mai state vendute negli Stati Uniti. Un sacco di dischi, giusto? Ora quella cifra raddoppiatela. Ecco quanto è grande Michael Jackson»... Nel 1984 Michael Jackson aveva ventisei anni, di cui già venti di carriera sulle spalle. E il segreto del suo appeal globale era solo uno: era un mostro. Un mostro di bravura, un eccezionale cantante e un ancora più eccezionale ballerino, ma anche un mostro nel senso etimologico del termine: un monstrum, una creatura mirabile, una chimera, una sfinge, un ragazzo-bambino senza età, senza sesso e senza razza. E la sua mostruosità è andata crescendo nel tempo, così come il suo fascino...
Diana Ross era stata per lui un’insegnante di portamento, di consapevolezza sul palcoscenico e di glamour. È stata catalizzatrice di quella cosciente e accorta operazione di femminilizzazione che ha permesso a Michael di scavalcare la pubertà trasformandosi in quella meravigliosa creatura epicena che avrebbe conquistato il mondo. 


DIANA ROSS


Diana Ross era il prototipo della star afroamericana gradita a tutti, bianchi e Neri, capace di ritagliarsi uno spazio tutto suo nell’immaginario americano. E Michael ha imparato da lei: una sorta di benevola “drag mother” che gli ha messo in mano i segreti di una femminilità seduttiva e sofisficata per disporne a suo piacimento. Quello stesso processo di trasformazione, col passare del tempo, Michael Jackson lo applica anche al suo aspetto. Il ricorso alla chirurgia estetica diventa per lui sempre più frequente. Michael non era mai stato felice del suo aspetto: il padre lo chiamava “big nose”, “nasone”, sottolineando una caratteristica fisionomica dei visi afroamericani che era da sempre vista come un ostacolo per i Neri che volessero diventare famosi nello spettacolo. E nel suo dna c’era tutta la frustrazione di generazioni di artisti Neri tenuti ai margini di Hollywood. L’insicurezza di Jackson è poi aumentata con l’adolescenza: un brutto problema di acne e vitiligine lo portava a truccarsi e a schiarirsi in modo sempre più pesante. L’artificio che usava sulla sua voce cominciava ad applicarlo anche al suo aspetto. Michael Jackson, scrive Margo Jefferson, «era un nuovo tipo di mulatto, una creazione nata da scienza, medicina e cosmetologia».

L'INCIDENTE 


A partire da un famigerato incidente che Jackson ebbe sul set di uno spot televisivo per la Pepsi Cola nel 1984, in cui gli andarono a fuoco i capelli, gli interventi sul viso, sulla pelle e sul cuoio capelluto di Michael si sono susseguiti. Ed è stato a quel punto, soprattutto a partire dal 1987, dopo l’uscita del video di Bad, che Michael Jackson ha cominciato a essere accusato di volersi sbiancare. Il suo naso era cambiato, anche la sua mascella e il taglio degli occhi. Quello dello schiarimento della pelle però era un dettaglio da cui era ossessionato soprattutto il pubblico bianco. All’interno delle comunità afroamericane, le creme sbiancanti o l’allisciamento dei capelli sono sempre stati artifici cosmetici diffusi.


Whitney Houston  


A dimostrazione di questo va detto che quasi nessun critico o commentatore afroamericano ha mai additato Jackson come traditore della sua razza. Paradossalmente l’artista che in quegli anni è stata più accusata di negazione della blackness era stata Whitney Houston che veniva chiamata “Whitey” e accusata di essere un prodotto pensato in laboratorio per essere venduto anzitutto ai bianchi. Il problema di Michael Jackson, di Whitney Houston, e fino a un certo punto anche quello di Prince, era lo stesso: la musica Nera stava entrando nel mainstream bianco. Thriller aveva cambiato le regole e Mtv inseriva in programmazione sempre più artisti afroamericani. Il miraggio del crossover aveva un prezzo: quello di doversi “candeggiare”, se non con dermoabrasioni o creme schiarenti, almeno nello stile e nella musica. Michael Jackson, o meglio la sua “color blindness”, per lo più percepita dal pubblico bianco, era la ragione per cui tutto questo stava accadendo.
Quando Jackson nel 1991 canta in Black or White: “non importa se sei Nero o bianco”, nascondendosi dietro a un discorso ecumenico, fa del marketing.

United Colors of Benetton

Quando parla di bianchi e Neri non fa del vero antirazzismo ma si lancia in una consolatoria variazione sul tema di United Colors of Benetton. Anche la sequenza del video in cui i lineamenti di persone di ogni etnia si mescolano una nell’altra ha qualcosa di involontariamente mostruoso, pur nella sua allegria. Quella performance fu candidata per un Emmy Award che invece fu vinto da un’altra grande pioniera afroamericana: Leontyne Price, la prima cantante lirica Nera ad avere ampio successo internazionale. Price fu la prima Aida Nera al Metropolitan di New York e i venticinque minuti di applausi che le tributarono alla fine della sua ultima esibizione in quel ruolo, il 3 gennaio del 1985, erano un tardivo risarcimento per le fatiche e le umiliazioni subite da generazioni di artisti Neri che avevano osato prima di lei (e di Michael Jackson) la scalata all’intrattenimento americano.

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