Da "Sergente nella neve" a "Centomila gavette di ghiaccio": i libri sul mito delle penne nere

Giovedì 11 Maggio 2023 di Edoardo Pittalis
Da "Sergente nella neve" a "Centomila gavette di ghiaccio": i libri sul mito delle penne nere
Laggiù in Russia il sole era freddo e il buio scendeva presto e il giorno sembrava non arrivare mai. "La notte era per noi come il giorno", scrive Mario Rigoni Stern nel suo "Il sergente nella neve". Nel capolavoro dello scrittore di Asiago c'è l'epopea letteraria degli Alpini le cui radici affondano nella ritirata dalla Russia, nella tragedia della guerra e nell'umanità della speranza. E si legge la morte vista con gli occhi del contadino diventato soldato: "Teneva le braccia raccolte sul petto e pareva stesse riposando dopo un lavoro nei campi".
Il mito letterario degli Alpini nasce con l'epoca vittoriosa della Grande Guerra, ma diventa ancora più drammaticamente grande con la sconfitta della seconda guerra mondiale.
Nella prima c'erano state le tavole della "Domenica del Corriere" illustrate da Achille Beltrame, vicentino di Arzignano, che avevano raccontato agli italiani la guerra a colori come in una specie di cinema per chi non sapeva leggere. Beltrame era nazionalpopolare, gli alpini si prestavano sempre: all'attacco di sorpresa, alla difesa ad oltranza, all'avanzata vittoriosa. Gli alpini non morivano, "sono andato avanti" disse il generale Antonio Cantone prima di cadere sulla Tofana.
Gli scrittori raccontarono la loro vita al fronte. Piero Jahier in "Con me e con gli alpini" (1920) fece senza retorica il ritratto di soldati come il bellunese Luigi Sommacal da Castion. Storie di uomini e muli come quelle di Paolo Monelli in "Le scarpe al sole" (1921) che poi diventerà un film nel 1935 con Camillo Pilotto, Isa Pola e Cesco Baseggio e la regia di Marco Elter, che era stato capitano degli alpini e campione del mondo di sci. "Mettere le scarpe al sole" è morire in combattimento. Diventerà un film nel 1940 anche "Il piccolo alpino" di Salvator Gotta.
La seconda guerra mondiale vede decine di migliaia di alpini mandati a combattere in Russia tra 230 mila italiani, mal vestiti, male armati, con casse ricolme di attrezzi inutili, dalla corda da roccia alle picozze. Ogni illusione si spegne prima di Natale del 1942, sulla sponda destra del Don, quando la manovra sovietica si chiude e decine di migliaia di soldati italiani vagano a -30° nella steppa. Muore un soldato su tre: "La colonna maggiore in ritirata era come una biscia lunga una quarantina di chilometri, due giorni di marcia", scrive Egisto Corradi, poi inviato del Corriere della Sera, nel suo fortunato "La ritirata in Russia".
Impiega molti anni per vedere pubblicato il suo "Centomila gavette di ghiaccio" (1960) il medico e scrittore Giulio Bedeschi: lo rifiutano 16 editori, poi avrà 130 ristampe e traduzioni, cinque milioni di copie vendute. Scrive: "Per quindici giorni abbiamo vissuto di semi di girasole, trovati nelle capanne, nelle fessure dei cassetti; la grande riserva erano i letamai". Racconta dell'attendente Toni Covre di San Fior di Treviso, che dopo la guerra emigrerà in Argentina; lo scrittore lo farà rientrare in Italia trovandogli un lavoro in una fabbrica di frigoriferi.
Dalla "Guerra dei poveri" di Nuto Revelli, ufficiale degli alpini poi protagonista della Resistenza: "Qui dove tutto è morto, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivere è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire".
Rigoni Stern, Revelli e Primo Levi erano amici, "come i tre petali di un trifoglio". Alla sua morte Levi lasciò una poesia a Mario e Nuto: "Ho due fratelli con molta vita alle spalle/ nati all'ombra delle montagne./ Hanno imparato l'indignazione/ nella neve di un Paese lontano,/ e hanno scritto libri non inutili".
Dalla neve di quel Paese lontano non tornarono quasi 90 mila soldati. Nella Pasqua del 1943 bastarono 17 tradotte per il viaggio di ritorno; all'andata c'erano voluti 217 convogli.
Gli ultimi resti degli alpini li ha consegnati all'Italia Gorbaciov al tempo della Perestrojka, cinquant'anni dopo la fine della guerra. Erano chiusi in cassette grandi come scatole di scarpe.
Ultimo aggiornamento: 16:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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