Coronavirus, da Roma al Polo Sud, il ricercatore Alberto Salvati: «Noi siamo i più isolati, perciò ci studiano»

Lunedì 20 Aprile 2020 di Enzo Vitale
Coronavirus, il ricercatore romano Alberto Salvati: «Noi in Antartide siamo i più isolati, perciò ci studiano»

Alberto Salvati, classe 1968, è nato a Terni ma vive a Roma (anche se il suo cuore sta a Cottanello, un paesino di 559 anime in provincia di Rieti). È tecnologo del Consiglio nazionale delle Ricerche. Si è laureato in Ingegneria Elettronico-informatico e poi ha conseguito un master in Ingegneria d’Impresa. È alla sua quarta esperienza al Polo Sud. Alla base italo-francese, Concordia, oltre ad essere lo Station leader, si occupa della gestione dei progetti di fisica dell’atmosfera e meteorologia. Tra i suoi hobby ci sono i viaggi, il cinema, la corsa, realizzare video, i trekking e fare hike in solitaria con bici e tenda.

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Un continente grande una volta e mezza l’Europa con temperature che possono variare, dalla costa all’interno, da più 15 a meno 90 gradi centigradi. Il primi a sbarcare, nel 1895, furono gli esploratori norvegesi Carsten Borchgrevink e Henryk Bull. Da allora, l’esplorazione dell’Antartide è stata costellata da avventure e, soprattutto, disavventure. Poi, quando si è compreso che il Continente bianco non era altro che un immenso laboratorio, dove poter studiare e sperimentare, le missioni e le nazioni hanno fatto a gara per realizzare le loro basi.


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L’Italia, ufficialmente, è presente dal 1985 con l’istituzione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra) e con due basi: una stagionale, la stazione Mario Zucchelli costruita in prossimità della costa, e la C-Dome Concordia, gestita in collaborazione con la Francia, posta a oltre mille chilometri dal mare e a 3.200 metri di altezza. È un avamposto scientifico unico sul pianeta. Ed è proprio qui, che dallo scorso novembre, “abitano” gli italiani della XXXVI spedizione: lo station leader Alberto Salvati, Andrea Ceinini, Loredana Faraldi e Luca Ianniello. I quattro dividono gli spazi della struttura con 7 francesi e un olandese. 
 
 



Station leader, ovvero capo della spedizione: Salvati ma perché è andato fin laggiù?
«Erano vari anni che ci pensavo, ma non ho mai avuto le circostanze giuste per farlo. Motivi di salute in famiglia, la fidanzata che non avrebbe gradito e l’idea che non potessi lasciare il lavoro per così tanto tempo. Ma l’anno scorso mi sono detto: Ora o mai più!».

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Prima volta all’estremo Sud del mondo?
«No, conoscevo già l’Antartide perché avevo partecipato già a tre spedizioni estive, sempre nell’ambito delle attività del Pnra ma fare l’inverno a Concordia è una esperienza completamente diversa».




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Obiettivi di questa ennesima spedizione?
«Essenzialmente proseguire le attività nei molteplici progetti scientifici in corso già da diversi anni. Alcune ricerche che riguardano l’astronomia e l’astrofisica, ad esempio, si possono fare solo qui o nello spazio».






Un esempio?
«A Concordia si utilizza un telescopio robotico che osserva il cielo nell’infrarosso. Fino ad adesso si sono svolti anche studi su pianeti extrasolari e onde gravitazionali e non mancano ricerche sulla nostra stella, il Sole». 

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Altri settori di ricerca?
«Sono diversi, ma principalmente sismologia, fisica dell’atmosfera e climatologia per porre le basi del successivo piano di carotaggio del ghiaccio a qualche migliaio di metri di profondità. Lo scopo sarà quello di approfondire l’archivio climatico del nostro pianeta. Una oceanografa, poi, si occuperà dello studio dell’impurità dell’aria e del ciclo delle acque per capire meglio l’impatto dell’uomo sull’ambiente. E ancora biologia e medicina con ricerche volte a comprendere i meccanismi di adattamento dell’uomo alle condizioni ostili».

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Anche perché voi stessi siete oggetti di studio.
«Sì, è proprio così. Mentre noi studiamo l’ambiente che ci circonda, un medico dell’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea) studia noi: partecipiamo a progetti scientifici che riguardano lo studio dell’adattamento dell’uomo a condizioni estreme, sia ambientali che d’isolamento. Concordia è di particolare interesse per l’Esa in quanto vivere qui è un po’ come vivere in una nave spaziale e gli studi che vengono fatti su di noi serviranno a preparare i futuri viaggi nello spazio, a cominciare da quello su Marte».

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Siete le persone più isolate al mondo ma sul resto del pianeta si sta vivendo un altro tipo di isolamento per l'emergenza coronavirus.
«Da “isolato” posso solo fare un appello a resistere e di non perdere la speranza. È un momento veramente brutto e difficile, ma ne usciremo e, secondo me, ne usciremo anche con una società migliore. Siamo di fronte a una duplice sfida: da un lato noi come singoli individui costretti a stare in casa e privati della nostra libertà, dall’altro noi come società, che inevitabilmente ne uscirà trasformata, con un mondo del lavoro ridisegnato, un’economia in crisi, con le relazioni sociali e la fiducia nel prossimo che cambieranno significativamente».

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Lei quindi è ottimista?
«Sì, credo nelle capacità dell’uomo. Io ho realizzato lunghi viaggi in bici in terre sconosciute. Il sacrificio e la fatica mi hanno insegnato che, lentamente, una pedalata dopo l’altra, un passo dopo l’altro, possiamo superare situazioni che ci sembrano insormontabili e ritrovarci a fare cose che ci sembravano difficilissime».

Difficoltà, se ci sono state, a Concordia?
«Gli invernanti provengono da diversi Paesi, parlano lingue diverse, hanno culture e esperienze diverse, hanno gusti diversi soprattutto a tavola, scientifici tecnici e logistici svolgono attività diverse e hanno orari diversi. A me piace molto questo ambiente internazionale ma non è facile muovercisi, specialmente come capo spedizione».

Perché?
«Bisogna tener conto, soprattutto, delle differenze caratteriali delle persone e delle loro abitudini e culture. Anche la lingua può essere una barriera e comunque può generare incomprensione».

In che lingua vi parlate dunque...
«Quella ufficiale della base è l’inglese ma nessuno di noi è madrelingua e si finisce per parlare il “concordiano” un mix tra inglese, francese e italiano; capita spesso che iniziamo una frase in inglese, poi la continuiamo in francese e la terminiamo in italiano». 

A novembre mancano ancora diversi mesi.
«Intanto già ci sentiamo una squadra unita ma siamo comunque consapevoli che i mesi peggiori devono ancora arrivare: tra poco entreremo nella lunga notte polare e per mesi non vedremo più il sole; le temperature stanno diventando sempre più proibitive e abbiamo già raggiunto -91,9 gradi centigradi. Anche in queste condizioni alcuni di noi devono uscire tutti i giorni per svolgere le loro attività. Insomma, nonostante tutto, qui la vita e soprattutto le ricerche, continuano».

enzo.vitale@ilmessaggero.it
 

Ultimo aggiornamento: 13:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA