Un paio di anni fa ho iniziato a piangere più spesso di prima. Ricordo, all’epoca, di aver pensato di essere diventata finalmente una donna sensibile dopo aver interpretato per anni il personaggio della cinica dal cuore d’oro. Insomma, ero sicura di essermi trasformata in una di quelle donne toste che però, a un certo punto, attorno ai 50, si aprono alla dolcezza e si commuovono per un nonnulla. Ero pronta per il ruolo di Shirley MacLaine in “Voglia di tenerezza”, insomma. Mi sono accorta che, per piangere, mi bastavano una frase ad effetto, una carezza, un cucciolo su Instagram. Piangevo da un occhio solo, però. Cosa che avrebbe dovuto farmi riflettere: quando mi sono ritrovata in lacrime per un aforisma di Paulo Coelho, ho capito che c’era qualcosa che sfuggiva alla mia volontà.
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Ecco, a volte succede che, a un certo punto, per motivi di ogni genere, qualcosa impedisce il drenaggio e l’occhio piange. A volte si risolve con dei lavaggi, nei casi più gravi, con un intervento delicato che ha qualcosa a che fare con la “Cura Ludovico” che Kubrik impone al povero Malcom McDowell nel film “Arancia Meccanica”: si impianta all’interno del canale uno stent, grande come un capello, che apre la via, aiuta il drenaggio e modella il percorso. E nonostante l’oculista garantisca che non si vede e non si sente, per le prime settimane convivi con quella che ti sembra una trave nell’occhio (e a quel punto speri di intravedere una parvenza di pagliuzza negli occhi di qualcun altro, e invece niente).
Lo stent si può tenere per diverso tempo, io ce l’ho ancora e lo sopporto, nonostante mi tenga un occhio più chiuso dell’altro, con un effetto asimmetrico, che però forse mi dona. Dulcis in fundo, tempo fa ho scoperto che questo disturbo colpisce prevalentemente le persone di una certa età, le popolazioni orientali e qualche volta le modelle, per via del trucco. Quindi, probabilmente, non sarò mai Shirley MacLaine, ma potrei con successo diventare presto una vecchia modella orientale.
*regista, sceneggiatrice, attrice
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