Il nuovo Covid in Italia si chiama VOC 202012/01, la variante inglese.
C’è un altro nodo: secondo il professor Andrea Crisanti, che dirige il Dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova, «le varianti genetiche del gene N possono compromettere la capacità di usare i test antigenici». Insomma, potrebbero aggirare i test rapidi, anche se su questo i pareri degli esperti sono discordanti. In alcune regioni la diffusione della mutazione inglese è sopra al 90 per cento, se c’è un infetto quasi sicuramente ha quella mutazione di Sars-CoV-2. Su base nazionale siamo al 70 per cento. Ma la situazione è variabile: in Emilia-Romagna l’80 per cento dei sequenziamenti ha mostrato la variante inglese.
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In Liguria, spiega il professor Giancarlo Icardi: «Dall’ultima analisi le varianti sui nuovi casi di positivi sono oltre il 75 per cento di cui oltre il 60 inglese e circa un 10 brasiliana». In più occasioni, hanno spiegato nel Regno Unito gli esperti, la velocità di trasmissione è superiore del 40 per cento e questo ha messo in difficoltà non solo Londra, ma molti Paesi europei. Secondo una ricerca pubblicata dal British Medical Journal, anche con la variante inglese la letalità resta molto bassa (ovviamente sui grandi numeri rappresenta comunque un drammatico problema), ma è superiore alla versione iniziale del virus del 60 per cento. Chi affronta il virus ogni giorno sul campo, nelle Usca (i medici che vanno sul territorio) o nelle corsie degli ospedale, ha esperienza diretta di come sia cambiata la malattia. In primis, la positività dura più a lungo. I sintomi sono cambiati: i più frequenti sono mal di gola, nausea e problemi intestinali (oltre ovviamente a febbre e problemi respiratori), sono meno frequenti fenomeni come perdita di olfatto e gusto.
SEGNALI
Altro segnale rilevato in molte regioni, come detto, è una accentuata carica virale, che in media può essere anche il doppio rispetto a quella della prima versione del virus. Segnalazioni arrivate dalle Usca nel Lazio, ma trovano conferma anche in altre regioni. Prendiamo l’Umbria, tra le prime a combattere le varianti. Antonella Mencacci è la responsabile del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale di Perugia che, per fortuna, ha intercettato per tempo l’esplosione delle varianti poi arginate grazie alla zona rossa: «La nostra esperienza conferma che le cariche virali sono molto alte e l’infezione dura di più. E colpisce persone più giovani, questo ha comportato un abbassamento dell’età media di chi viene ricoverato». Analizza il professor Massimo Andreoni, primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma: «Rileviamo non solo una maggiore trasmissibilità del virus, ma anche una maggiore severità. E vediamo persone più giovani che si ammalano. Più che parlare di una maggiore aggressività o virulenza, però, dovremmo parlare di una maggiore capacità replicativa. Questo è un problema molto serio. Nelle terapie intensive oggi ci sono cinquantenni e quarantenni». Eppure, nel dramma causato dalla diffusione della variante inglese, c’è un paradosso: è quasi un bene che stia vincendo la competizione con la mutazione brasiliana o sudafricana, perché sappiamo che l’effetto del vaccino sull’inglese non è in alcun modo compromesso.