Covid, D'Amato: «Zone rosse subito nel Lazio, senza ritardi Lombardia casi sarebbero stati ridotti»

Parla l'ex assessore alla Sanità della Regione, in carica durante la pandemia: «Altre regioni hanno temporeggiato»

Mercoledì 8 Marzo 2023 di Graziella Melina
Covid, D'Amato: «Zone rosse subito nel Lazio, senza ritardi Lombardia casi sarebbero stati ridotti»

«Il Lazio è stata la prima Regione ad aver deciso con tempestività di attuare le zone rosse. È stato un fattore importante per limitare il virus qui da noi». Alessio D’Amato, assessore alla Santà della Regione Lazio durante la pandemia, non ha dubbi: «Sicuramente se non ci fossero stati ritardi nelle chiusure della Lombardia, il numero dei contagi sarebbe stato ridotto».  

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Come mai avete deciso subito di ricorrere a misure restrittive?  

«Nel momento in cui abbiamo avuto cognizione di dover delimitare e circoscrivere alcune zone, lo abbiamo fatto tempestivamente e con lo strumento dell’ordinanza del presidente, sentendo i comuni interessati e le prefetture.

In poche ore abbiamo indicato complessivamente nove zone rosse. Era l’inizio della pandemia: Roma è stata la prima città in Europa che ha avuto a che fare sul proprio territorio con il virus, ed era il 29 gennaio, per cui il sistema era abbastanza allertato».

Non c’era alternativa?  

«Il contenimento e la riduzione della circolazione delle persone è un elemento classico di contrasto alla pandemia, necessario per limitare la circolazione del virus. Non dimentichiamo oltre alla coppia di cinesi infettati, i primi contagi che abbiamo avuto sul territorio regionale arrivavano dal Nord: ricordo il caso di una donna che era stata ad Alzano Lombardo e al ritorno è risultata positiva». 

Cosa pensavate allora dei ritardi in Lombardia? 

«Noi abbiamo scelto sempre la linea della massima precauzione e della cautela. Il confronto tecnico scientifico, per quanto ci riguarda, avveniva con lo Spallanzani e con il nostro dipartimento di epidemiologia. A seconda del numero di casi, l’incidenza e l’rt, si raccomandava la presa di decisione più opportuna. Sicuramente c’è stata una differenziazione tra noi e la Lombardia riguardo alla tempestività, noi non abbiamo indugiato».

Con le chiusure immediate, la diffusione del virus sarebbe stata limitata? 

«Sicuramente sì. E successivamente ne abbiamo avuto maggiore consapevolezza. Certamente, è un elemento che avrebbe ridotto il numero dei contagi». 

Le pressioni dei settori economici hanno avuto un certo peso?  

«Immagino di sì. Le abbiamo avuto anche noi in alcuni casi, però in queste circostanze prevale la superiorità della salute pubblica. Ricordo che quando abbiamo fatto la zona rossa a Fondi, dove c’è il più grande mercato ortofrutticolo europeo, il secondo dopo Parigi per numero di merci, la decisione di chiudere ha comportato dei mugugni e delle difficoltà. Però, ripeto, conta il principio della massima precauzione».

Con un piano pandemico aggiornato sarebbe stato tutto più semplice? 

«Noi abbiamo seguito i protocolli che erano già stati adottati per quanto riguarda la sars e la mers, e poi abbiamo seguito l’alert dell’Oms a fine dicembre, tant’è che quando arrivò il mezzo di biocontenimento all’hotel Palatino il 29 gennaio erano già state adottate tutte le misure di precauzione. Se noi non avessimo messo in capo quei protocolli, la coppia di cinesi poteva infettare altre persone in giro per Roma e per la nostra regione. Noi abbiamo saputo reagire perché abbiamo avuto un tasso di letalità molto inferiore rispetto a quello di altre regioni europee. Sicuramente poter contare su piani aggiornati è sempre auspicabile e funzionale».  

Cosa le ha insegnato quel periodo?  

«Innanzitutto abbiamo capito che il fattore tempo è fondamentale: per contrastare il virus devi correre un po’ più veloce e adottare tutte le misure necessarie per limitarne la circolazione. E poi che è necessaria una sorta di agenzia nazionale e quindi di univocità a livello nazionale per adottare con tempestività tutte le procedure necessarie. È evidente che nel Lazio abbiamo fatto le zone rosse senza aspettare la decisione della presidenza del consiglio dei ministri, l’ordinamento lo consente. Ma se in altre regioni su questo hanno temporeggiato vuol dire che non c’è una univocità nel metodo». 

Vuol dire che in caso di emergenza l’autonomia delle Regioni andrebbe superata? 

«Sì, assolutamente. La nostra regione è stata considerata virtuosa, è stata un modello, però in generale c’è bisogno di avere un quadro nazionale, come del resto accade a livello europeo con l’ecdc, il centro per la prevenzione e il controllo delle malattie».

Vale anche per la distribuzione delle risorse? 

«Noi abbiamo un sistema sanitario sottofinanziato da almeno oltre 10 anni, per cui anche di recente un rapporto Ocse mostra come in Italia servirebbero almeno 25miliardi in più di finanziamento al sistema sanitario. Questo è un grande tema che il governo dovrebbe affrontare come prioritario, perché riguarda la prevenzione, la preparazione e la gestione di future pandemie, ma anche l’organizzazione quotidiana del nostro sistema. Con il livello di finanziamento attuale, il nostro sistema sanitario rischia di collassare da qui a breve». 

Ultimo aggiornamento: 9 Marzo, 12:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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