Agli albori, ancora novellini, si presentavano come il partito dello streaming: la presunzione che una telecamera accesa potesse svelare la “verità nel Palazzo”. Una volta entrati nella stanza dei bottoni, e scoperto che in fin dei conti non sono mica male, i consiglieri del M5S di Roma iniziarono subito a spegnere la telecamera: i processi decisionali non sono uno show e la politica è fatica, dissero. E meno male. E così per i primi tre anni la maggioranza fu un monolite. C’erano sempre le riunioni fiume e le liti, ma tutto rimaneva nella segrete stanze. Il dissenso era bandito. Anche perché bastava un clic per essere espulsi dai vertici per finire poi alla berlina del popolo grillino, pronto agli sputazzi digitali. Un partito leninista, insomma. Ma ormai, vuoi perché l’esperienza di Raggi sia avvia alla fine vuoi perché i vertici non mettono paura nemmeno a un bimbo e il popolo grillino latita, in Campidoglio ci si alza e si attacca Raggi senza farsi troppi scrupoli. Dinamiche simili che conosce bene anche Di Maio in Parlamento. E allora Monica Montella e Simona Ficcardi se la prendono per la discarica, Gemma Guerrini per i sampietrini da togliere in Centro, Daniele Diaco minaccia le dimissioni, Marcello De Vito guarda a Fioramonti. La presunta casa di vetro è diventata come la Casa delle libertà dello sketch di Corrado Guzzanti: ognuno fa quello che gli pare.
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