«Un pestaggio degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso». Poche parole che bastano a sintetizzare la lunga requisitoria, durata quasi otto ore e ancora incompleta, del pm Giovanni Musarò nell'aula bunker di Rebibbia al processo sulla morte del giovane detenuto romano Stefano Cucchi.
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Una vicenda giudiziaria che per il pubblico ministero è stata segnata da un «depistaggio scientifico» e cominciata nel 2010 con un primo «processo kafkiano», quello agli agenti della penitenziaria, poi assolti, e proseguita con i procedimenti a carico dei medici. Ma a distanza di nove anni ora tutto è cambiato. Gli imputati alla sbarra sono cinque carabinieri, in particolare Raffaele D'Alessandro, Alessio Di Bernardo e Francesco Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale.
È stato proprio quest'ultimo a segnare, con la sua testimonianza nel 2018, la svolta nel processo bis accusando i suoi due colleghi del pestaggio nella stazione della compagnia Casilina. Gli altri due militari dell'Arma imputati sono Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, il primo accusato di calunnia e falso, il secondo di calunnia. Intercettazioni, documenti, testimonianze: il pubblico ministero - a fianco del quale sedeva per l'occasione anche il procuratore di Roma facente funzioni, Michele Prestipino - ha ripercorso davanti alla Corte d'Assise gli elementi decisivi che porteranno alle sue richieste di condanna il prossimo 3 ottobre, quando terminerà la requisitoria. Il pubblico ministero si è soffermato su alcune figure chiave.
Uno fra questi è Luigi Lainà, che incontrò Cucchi nel centro clinico di Regina Coeli. «Si sono divertiti a picchiarlo», ha detto Musarò usando le parole del detenuto. È proprio a Lainà che Stefano ha lasciato questa «sorta di testamento, dicendogli - ha proseguito il pm - che a picchiarlo sono stati due carabinieri in borghese della prima stazione da cui è passato. Cucchi ha parlato con la voce di Lainà».
Ma il ruolo più importante è stato quello di Francesco Tedesco, il carabiniere imputato che dopo quasi dieci anni ha ammesso il pestaggio che avrebbero commesso i due colleghi e al quale ha riferito di aver assistito. «In questo processo lui è l'unico che ci ha messo la faccia. Quello che ha fatto Tedesco è grave: false dichiarazioni al pm, falso verbale e altro. Ma lui si è trovato di fronte un muro», ha spiegato il pm ricordando le parole di Cucchi riferite da Lainà: 'Quello in divisa è stato la mia salvezza'. Sarebbe stato proprio Tedesco - secondo le sue dichiarazioni - a fermare i colleghi D'Alessandro e Di Bernardo mentre picchiavano Stefano. Nonostante ciò, Cucchi morì pochi giorni dopo.
«Le lesioni più gravi sono state prodotte dalla caduta di Cucchi, dopo il violentissimo pestaggio - ha spiegato Musarò - Quella caduta gli è costata la vita, si è fratturato due vertebre».