Roma, San Lorenzo, sale il grido di dolore di baristi e ristoratori: «Perdite dell’80%»

Giovedì 10 Dicembre 2020 di Alessandro Strabioli
Roma, San Lorenzo, sale il grido di dolore di baristi e ristoratori: «Perdite dell’80%»

San Lorenzo, il quartiere universitario di Roma appoggiato alle mura aureliane di Porta Tiburtina e noto per la sua vita notturna spesso fuori controllo, alla sera oramai è irriconoscibile.

Fa impressione per chi è abituato a muoversi tra le sue vie dedicate agli antichi popoli italici da sempre animate da ragazzi e ragazze, studenti e studentesse, che s’incontrano fuori i locali, i ristoranti, il cinema Tibur o nella piazza dell’Immacolata, la stretta lingua senza traffico che si allunga tra la basilica del quartiere e il liceo Machiavelli.

La sera San Lorenzo è ferma. C’è chi vede il bicchiere mezzo pieno: «Almeno ci si riposa» - il silenzio qui è effettivamente roba rara, a lungo auspicato da molte famiglie che nel corso del tempo si sono riunite in comitati di protesta contro gli schiamazzi e le cretine tracce d’immondizia della movida notturna -. Eppure, il sentimento più diffuso sembra proprio quello della perdita. Già dalla mattina: la scomparsa dei gruppetti di studenti che facevano colazione coi libri aperti, delle fotocopie degli appunti scarabocchiati, delle ultime ripetizioni a voce alta prima degli esami, degli zaini, delle sacche coi loghi delle università, delle mode esasperate e divertenti, delle tante voci sfumate dai dialetti attorno ai bar. All’ora di pranzo lo stesso senso di vuoto: svanite le file davanti ai forni e le pizzerie, niente più panini finiti a metà nei sacchetti zozzi d’olio, scomparso il risiko disordinato dei caffè sui bordi dei tavolini neri di via Tiburtina. E soprattutto, ancora una volta, pochissimi giovani.

 

Ma è alla sera che questo sentimento di perdita si concretizza e intristisce. Così questo quartiere non lo si era mai visto, nemmeno nei periodi più bui della crisi economica, nemmeno a seguito delle diverse ordinanze anti-movida che si sono susseguite negli anni, con divieti e restrizioni d’ogni tipo. A pagarne il prezzo più alto sono ovviamente coloro che hanno investito nelle attività di ristoro, che qui a San Lorenzo sono state fidelizzate nel tempo dai tantissimi studenti, giovani lavoratori e famiglie, che a partite dagli anni ’60 hanno fatto di questo quartiere – con tutti i sui limiti e difficoltà – una delle ultime zone centrali di Roma ancora accessibili dal punto di vista economico. 

«La mia storia come ristoratore a San Lorenzo nasce sette anni fa, in un posto più piccolino da quello dove sono ora, esattamente a 100 metri da qui, a via Tiburtina. Ero appena tornato dalla Cina, dove ho lavorato due anni, e cercavo un mio spazio in cui poter avviare la mia attività e mettere a frutto le mie esperienze nella ristorazione. Ho iniziato dal nulla. Non immaginavo di poter avere questo successo, che effettivamente c’è stato, e quindi mi sono deciso a fare il gran salto, cioè comprarmi un locale tutto mio, magari con un giardinetto, che era molto appetibile per me e i miei clienti: poco traffico, intimo, riservato, insomma, un sogno. E così è stato. Avevamo inaugurato la “Trattoriola” da un anno, poi purtroppo da marzo il lockdown dopo lo scoppio del Covid… Abbiamo riaperto a fatica a giugno e le cose pian piano sono migliorate. Certo, non una vera e propria ripresa, ma ci stavamo rialzando, perlomeno si lavorava ed era tornata un po' di fiducia. Ma dopo le ultime restrizioni tutto è cambiato, anche perché la maggior parte del nostro lavoro è sempre stata concentrata alla sera. A pranzo avevamo già perso molti clienti a causa dello smartworking. E qui col CNR gli ambulatori, i professori, gli studenti… ce n’era di gente che veniva a pranzo! Ma nonostante tutto si continuava a resistere con le cene e coi weekend. Ma adesso non sappiamo davvero come fare. Oramai lavoriamo l’80% in meno rispetto a prima, una cosa enorme». 

Quella di Luca, giovane proprietario di una deliziosa e preziosa trattoria romana dalle influenze campane, è la stessa sensazione di suoi molti colleghi, quella, cioè, che forse si sarebbe potuto far qualcosa di più per salvaguardare le loro attività. La maggior parte dei gestori dei ristoranti del quartiere si sono subito attrezzati per il contenimento degli ingressi e la gestione dei coperti, dotandosi di separé, tavoli distanziati, dispenser alle entrate e nei bagni, percorsi obbligati, ordinazioni tramite scanner code in menù ridotti a bigliettini plastificati. Eppure tutto ciò non è bastato. L’aumento dei contagi ha costretto il governo a imporre restrizioni ancor più dure, che hanno inevitabilmente messo in ginocchio un intero settore. Secondo un’analisi di Coldiretti, effettuata in riferimento al varo del decreto Ristoro ideato per alleviare gli effetti dello scorso Dpcm, i ristoranti hanno perso sei clienti su dieci, pari a 63%, con inevitabili ripercussioni sull’intera fiera agroalimentare. Questi provvedimenti hanno colpito duramente l’economia di pub, ristoranti, trattorie, gelaterie, pizzerie, e in generale tutte quelle attività che incassano maggiormente con il lavoro serale, senza contare l’norme perdita dovuta alla mancanza di turisti. 

«Credo – continua Luca – che non siamo noi ristoratori gli untori. La cosa assurda poi è che a pranzo possiamo lavorare e a cena no. Naturalmente questo Dpcm è stato fatto per cercare di contenere la movida. Ma San Lorenzo oramai, anche dopo il fatto di Desirée, è cambiata profondamente. Non c’è più tutto questo movimento. E comunque noi, come altre realtà, non facciamo parte di questo universo. Non abbiamo mai avuto nessun assembramento perché non siamo dei pub, né cocktail bar. Per noi ristoranti, anzi trattorie, forse la cosa poteva essere gestita in maniera diversa, almeno per non affondare del tutto il nostro lavoro e quello di chi ci sta dietro. Ci si dimentica che alle spalle abbiamo tutta una filiera di fornitori e clienti, dalle cantine del vino a chi ci porta il formaggio, ai fornitori del pesce – il nostro buon baccalà –, delle uova, che noi magari prendiamo allevate a terra e a mais per far le carbonare come si deve. Insomma, tutta una serie di realtà che stiamo distruggendo, perché ci sono tante persone che non ce la fanno più. Alcuni miei colleghi non hanno nemmeno ripreso a lavorare dopo la riapertura di giugno. Io, per ora, posso solo provare a resistere». 

Paul Valéry diceva che il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi. Un leitmotiv, questo, che spesso ricorre quando si guarda al mondo dei giovani, accusati sovente d’indolenza, poca vitalità e pochissimo coraggio. Eppure, di energia e di audacia giovanile ne siam circondati. Va da sé che se questa potenza intellettuale e corporea – che nei giovani è al massimo grado – viene abbandonata a se stessa, limitata da politiche tutt’altro che lungimiranti, mortificata da contratti ridicoli per responsabilità affidate, retribuzione e stimoli concessi, i sogni dei giovani continueranno a rimanere tali. Detto ciò, a San Lorenzo, nonostante le difficoltà oggettive del quartiere, gli esempi virtuosi di attività lavorative costruite da ragazzi e ragazze sono davvero tanti. Flavio, giovane imprenditore romano, gli occhi l’ha sempre avuti aperti e il suo sogno ben chiaro davanti a sé. 

«Ho iniziato a fare il barman nel 2000, quand’ero ancora all’università. Ero sicuro che quella doveva essere la mia vita, quel lavoro mi piaceva moltissimo. Ma poi ho vinto un concorso al Ministero delle finanze e per necessità economiche ho dovuto accettare, anche se dentro di me sapevo che non era quella la mia strada. Eppure sono andato avanti per 8 anni, finché ho deciso di seguire l’istinto e ho investito tutti i miei risparmi in Officine Beat. È un locale che ho coccolato, curato, cresciuto come fosse un figlio, cercando di utilizzare ricette originali per i cocktail e i piatti, utilizzando prodotti fatti in casa e rifornendomi esclusivamente da produttori a km0 e, in generale, da tutte quelle piccole realtà che fanno parte della filiera corta. Alla fine il mio impegno e la mia passione sono stati ripagati… Sono stati anni intensi e molto belli». 

«Adesso è dura. Col Covid molte cose sono cambiate, ma io mantengo sempre il mio obiettivo. Non voglio deprimermi, anzi, voglio prendere spunto da questa situazione per crescere, maturare e sperimentare cose nuove. Mi sono reinventato con l’apertura mattutina con colazioni e servizi di qualità, che magari in futuro potranno essere un valore aggiunto a quel che già facevo. Ho voluto fare una cosa diversa, per esempio offrendo una english breakfst ricca e diversificata. Durante il lockdown ho inventato poi un kit d’asporto nel quale ho voluto unire la consumazione del drink con una strategia di marketing che si chiama gaming, puntando a far giocare le persone, a coinvolgerle dal punto di vista esperienziale. Il mio kit è una scatola molto curata con all’interno delle boccette in vetro con le porzioni già misurate, con la frutta disidratata, le guarnizioni e con una infografica esplicativa con le modalità di preparazione (tenendo conto degli strumenti che si possono avere a casa) e alcuni cenni storici sul prodotto. Insomma, questo lavoro non si può ridurre solo alla vendita di un cocktail, di un piatto, di un certo prodotto, né solamente al guadagno. A me piace vendere un’esperienza, mi piace il rapporto col cliente, mi piace il contatto umano. Ed è forse proprio quest’ultimo, tra tutte le cose, a mancarmi di più». 

Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 12:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA