Roma, Buzzi torna libero: «Apro un ristorante e lo chiamo 416 bis»

Sabato 27 Giugno 2020 di Michela Allegri
Roma, Buzzi torna libero: «Apro un ristorante e lo chiamo 416 bis»

L’anima dell’imprenditore e il piglio da affabulatore non sono stati scalfiti dalla detenzione in regime di alta sicurezza, dall’accusa - poi caduta - di mafia, da una condanna a 18 anni e 4 mesi di reclusione che ora dovrà essere riquantificata dalla Corte d’appello. Salvatore Buzzi, ai domiciliari dallo scorso dicembre, ieri è tornato in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. È consapevole di essere ormai «un brand», dice, e per il futuro ha un’idea: «Voglio aprire un ristorante e chiamarlo 416 bis, o ancora meglio: Mafia Capitale. Sto cercando un investitore danaroso, lo scriva!». E il Mondo di mezzo? «Ma quale sistema, eravamo una banda di cazzari».

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Signor Buzzi, com’è questo ritorno in libertà?
«La verità è che non ci tenevo tanto ad essere scarcerato, stavo tanto bene ai domiciliari. Stavo a casa e intanto quei giorni valevano come espiazione pena, non avevo nemmeno chiesto di tornare libero, ma lo hanno deciso i giudici d’ufficio».

Come ha vissuto in questi anni, dall’arresto fino alla sentenza della Cassazione?
«Sono stato sbattuto per 5 anni in Austria, perché il carcere di Tolmezzo è praticamente Austria, in regime di alta sicurezza, lontano dalla mia famiglia. Tutto per un’accusa che non esisteva. Le mie cooperative sono fallite, chi me le restituisce? Mi sono difeso con le unghie e con i denti insieme ai miei avvocati. Ma ora la Cassazione ha scolpito queste parole sul marmo: non c’è la mafia».

L’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, però, è stata riconosciuta...
«Parliamo di 65mila euro di tangenti su un fatturato di 180 milioni, si rende conto? Era una storiella di corruzione, al massimo, ma non da farci libri e fiction. Gli impiegati dell’ufficio condono che hanno arrestato l’altro giorno hanno preso più di me. Parnasi ha preso più di me. Ma poi a Roma fanno tutti così, serviva per lavorare, per farsi pagare. E io sono finito in prima pagina sul New York Times. Ma questo è stato un danno enorme per la città di Roma, e chi lo paga?».

Pensa davvero che sia una buona giustificazione dire che pagava tangenti perché era la prassi?
«La verità è che io pagavo quasi sempre per farmi pagare. L’Ama, l’Eur, il Campidoglio dopo anni ancora non saldavano i conti. E io come avrei dovuto mantenere i miei dipendenti? Ho dato lavoro a tutti, parliamo di 1.250 persone. Di sicuro non lo facevo per un arricchimento personale».

Però nel fascicolo ci sono molte intercettazioni eloquenti...
«E quali? Quella della mucca che per essere munta deve mangiare? Io mi riferivo alle mie cooperative. Tutti mi chiedevano di assumere amici, parenti, amanti. In Campidoglio tutti, dall’usciere al poliziotto di guardia. Ogni assunzione costa circa 40mila euro. E poi io ho denunciato questo fenomeno corruttivo nel 2010 e nessuno mi ha ascoltato».

Beh Carminati le aveva anche detto di mettere una minigonna e andare «a battere in Campidoglio».
«Ma quello è chiaramente un modo di dire. È slang romanesco, come si dice, stavamo a cazzarà. Ma sa cosa penso? C’è stato tutto questo casino perché i pm che indagavano non erano romani, uno era veneto, altri tre siciliani, compreso Pignatone. Un romano avrebbe capito che era slang. Non eravamo una banda di mafiosi, al massimo eravamo una banda di cazzari».

Però di appalti le sue cooperative ne hanno vinti parecchi, non pensa?
«Certo che lo so, eravamo bravi. Ma avevamo nemmeno lo 0,5% di fatturato del Comune di Roma, e su questo hanno costruito un teorema. A Roma prima l’87% delle procedure di gara erano tra privati, era normale mettersi d’accordo».

Magari non direi che fosse esattamente normale...
«Gli accordi ci sono ovunque, non abbiamo turbato le procedure. Cosa facevano di diverso al Csm? Ora è uscito fuori di tutto. Io le cose che ho fatto le ho ammesse, ora spero di avere una condanna per i fatti, non per le leggende».

Lei e Carminati vi sentirete?
«Certo che sentirò Massimo, sarà invecchiato pure lui eh, 5 anni sono tanti. Non potremo vederci purtroppo, io ho l’obbligo di dimora a Roma, lui a Sacrofano».

E adesso cosa farà?
«Per prima cosa prenderò un gelato con mia figlia. Per il futuro ho qualche idea. Durante i domiciliari ho coltivato un bellissimo orto. Mi piacerebbe aprire un ristorante. Lo chiamerei “416 bis”, o ancora meglio: “Mafia Capitale”. Ormai è il mio brand».

Non ha perso l’ironia...
«Mai! Bisogna sempre essere ironici. Comunque sono serio, lo scriva, sto cercando un socio investitore».
E lei di cosa si occuperebbe? Sa cucinare?
«No, no, io farei l’affabulatore, che mi riesce benissimo».
 

 

Ultimo aggiornamento: 07:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA