De Pedis, il boss dei misteri di Roma ucciso trent’anni fa

Lunedì 3 Febbraio 2020 di Cristiana Mangani
De Pedis, il boss dei misteri di Roma ucciso trent’anni fa

Erano le 13 del 2 febbraio di trenta anni fa. Via del Pellegrino, proprio dietro Campo de’ Fiori. La solita folla: chi comprava le rose, chi la pizza più buona di Roma. Renatino De Pedis era appena uscito da una gioielleria e si stava allontanando a bordo del suo scooter 50. Lo conoscevano tutti in quella zona, il capo della banda della Magliana. Sembrava un signore elegante, azzimato, 36 anni, uno di quelli che non si sporcavano le mani, perché “ad agire” erano i suoi uomini.

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Quella mattina, però, per lui era suonata la campana a morto. Stava cercando di tagliare i ponti con il passato, Enrico De Pedis, detto Renatino. E quella moto di grossa cilindrata arrivata senza preoccuparsi del rumore, forse un po’ se l’aspettava: due, tre colpi, una raffica di proiettili. Non c’è scampo per il boss dei mille misteri. Sbanda con il suo motorino e finisce a faccia in giù. Ci vorrà parecchio tempo prima di scoprire che a bordo della moto c’erano Marcello Colafigli, detto “Marcellone”, seduto sul sedile posteriore. E alla guida, Antonio D’Inzillo, il giovanissimo neofascista, deceduto diversi anni fa per una epatite fulminante, mentre aveva trovato rifugio in Sud Africa.

LA FAMIGLIA
De Pedis era nato il 5 maggio del 1954 a Trastevere. Non beveva, non si drogava, non sperperava il denaro. Nella stessa zone risiede ancora oggi il resto della sua famiglia: i fratelli gestiscono dei ristoranti molto conosciuti. Il terreno di conquista, però, era Testaccio, dove era cresciuto e dove lo legava una profonda amicizia con Raffaele Pernasetti, “er Palletta” (oggi cuoco). Gestiva il racket, le rapine e gli scippi anche nel centro storico della città, ed era finito in carcere la prima volta a soli venti anni. Nel ‘77 la seconda, insieme con “Zanzarone”, al secolo Alessandro D’Ortenzi. E fu un bene per lui quell’arresto, perché è riuscito a evitare l’incriminazione per il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, preso in ostaggio e ucciso, che, però, aveva portato nelle “casse” della banda due miliardi di lire di riscatto. Il bottino necessario ad aprire la porta alla conquista della città.

È bastato un attimo al Dandy per arrivare ai vertici del crimine romano. Grazie anche alla morte violenta dei concorrenti, Franco Giuseppucci e Daniele Abbruciati. Renatino sapeva entrare nei consessi giusti: dalla politica ai salotti buoni. Ed è durante quella scalata che potrebbe aver commesso un errore, almeno secondo “la verità” raccontata su di lui molti anni dopo da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano e amante di De Pedis per tantissimo tempo: la gestione operativa del sequestro di Emanuela Orlandi, la figlia sedicenne di un messo pontificio mai ritornata a casa. A convincerlo ad organizzare il rapimento sarebbe stato l’allora capo dello Ior, monsignor Marcinkus. La fine della ragazza, secondo Minardi, sarebbe stata terribile e il corpo sarebbe finito in una betoniera sul litorale romano. Accuse che non hanno mai trovato un vero riscontro.

LA SEPOLTURA
Anni dopo, per le insistenze della donna che ancora oggi è fedele alla sua memoria, Carla Di Giovanni, sposata con un matrimonio sfarzoso nell’88, la bara del boss della Magliana è stata tumulata all’interno della Basilica di sant’Apollinare con dei diamanti intarsiati nel legno.

A firmare il nullaosta per la sepoltura in quel luogo sacro tra nobili e prelati, è stato il cardinale Ugo Poletti in persona, all’epoca presidente della Cei e vicario della diocesi di Roma. «Era un benefattore», aveva giustificato la decisione don Vergari, il rettore della chiesa. Ma si è sempre sospettato che, dietro la decisione, ci fosse un ricatto al Vaticano. Solo dopo molti anni e molte indagini anche nel luogo sacro, la bara è stata spostata a Prima Porta, in seguito i resti sono stati cremati e dispersi in mare. 

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