Covid a Roma, i camerieri diventano rider: «Così evitiamo i licenziamenti»

Domenica 1 Novembre 2020 di Fabio Rossi
Covid a Roma, i camerieri diventano rider: «Così evitiamo i licenziamenti»

Al citofono, quando ormai è ora di cena, c’è il cameriere che si incontrava di sera al ristorante, quando il pasto del weekend si consumava al solito tavolo: rigatoni all’amatriciana, bistecca al pepe verde e l’immancabile bottiglia di vino rosso. «Abbiamo 13 dipendenti, con famiglie a carico, e la cassa integrazione arriva con ritardi inaccettabili: l’unico modo per continuare a farli lavorare è assegnargli le consegne a domicilio». Debora è una delle titolari della pizzeria “San Marino”, di corso Trieste: «Abbiamo ridotto i tavoli da 160 a 80, dimezzato anche i posti all’esterno e speso tanto per adeguarci alle norme di sicurezza anti-Covid - dice - e adesso siamo ridotti così». Siamo nel II Municipio, attraverso quartieri borghesi con forte identità, sull’asse a vocazione commerciale che si snoda per viale Libia e viale Eritrea, estendendosi sul tratto di corso Trieste compreso tra piazza Annibaliano e piazza Istria.

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Di giorno è una delle aree di shopping più frequentate della Capitale, lasciando il posto verso sera ad aperitivi e cene.

Ora, dopo mesi di lockdown, faticosa ripresa e nuove restrizioni, tra le vetrine sono sempre più frequenti i cartelli che parlano di “svendita per fine attività” o i locali vuoti con l’onnipresente “affittasi” esposto, con scarsa convinzione, sulla porta d’ingresso. «Abbiamo ancora merce invenduta dallo scorso inverno, così è impossibile andare avanti - dicono in un negozio di valigie e pelletteria nei pressi di viale Libia - D’altronde persino le aziende produttrici hanno dimezzato l’attività».

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LA RISPOSTA
Pochi lavoratori in giro - causa smart working - e ancor meno studenti universitari: l’unica risorsa per gli esercizi che resistono sono i residenti. «Chi può fa il possibile per sostenere i ristoratori della zona - racconta Barbara Lessona, attivista del comitato “Amo il quartiere Trieste” - Sui social leggo abitanti del quartiere che si impegnano a usare il delivery almeno due volte alla settimana, anche in segno di solidarietà verso quegli esercizi che sono parte integrante del territorio, e che adesso sono in grossa difficoltà». Già, i social: in molti si stanno attrezzando per utilizzarli al meglio, promuovendo offerte e servizi di consegna. «Per vendere usiamo le app più diffuse, che ci permettono di raggiungere un pubblico più vasto - dicono diversi gestori di bar, ristoranti e pizzerie del quartiere Africano - Ma ci costano molto, come percentuale sul conto». E così chi può si organizza da solo, almeno per servire a domicilio i clienti più affezionati (e meno distanti dall’esercizio). «Ci siamo attrezzati per consegna a domicilio e vendita da asporto durante il lockdown in primavera, e ora quantomeno ci siamo fatti trovare pronti», spiega Marco Micangeli, responsabile della pizzeria “Lievito”, in via Chiana. «Ora abbiamo acquistato nuovi zaini e dispositivi per garantire massima igiene e assoluta sicurezza ai nostri clienti - aggiunge Micangeli - ma il danno alla nostra attività, rispetto al periodo pre-Covid, è tra il 70 e l’80 per cento».

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A CASA 
Poco o tanto, la consegna a domicilio è diventata una strada obbligata quasi per tutti, compresi i bar e le pizzerie al taglio. «Dalle 18 non possiamo più vendere in negozio, quindi ci attrezziamo a fare servizio a domicilio - sottolinea Sveva, titolare della pizzeria “La Biga”, in viale Libia - Ma gli ordini sono davvero pochi, quindi facciamo personalmente le consegne». Stessa scelta per un’enoteca a conduzione familiare, la “Focarello” di via Scandriglia: «Portiamo qualche bottiglia a casa ai clienti - dice il titolare - per fortuna al momento non abbiamo ancora notato un calo evidente di vendite, anche se ci sono meno persone che acquistano vino per andare a cena fuori casa».

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A PRANZO 
Se di sera bisogna restare chiusi, tranne che per asporto e delivery, gli effetti negativi per i pubblici esercizi si misurano anche nelle ore di apertura al pubblico, a causa del calo complessivo degli spostamenti in città. «Mediamente a pranzo vendevamo 150 piadine, ora siamo intorno alle 80 - dicono da “GianGusto”, in viale Eritrea - La sera ci affidiamo alle app e alla vendita da asporto, ma la situazione è ancora peggiore». I pub, neanche a dirlo, soffrono ancora di più: «Da noi, prima delle 18, vengono ben poche persone», lamenta il gestore del “Boca”, birreria artigianale di piazza Annibaliano. Ma c’è anche chi alla cena ha rinunciato, visti gli alti costi da sostenere e le scarse richieste. Come il ristorante “Le gole di Amatrice”, a corso Trieste: «Ho scelto di restare aperto solo a pranzo, anche se il volume d’affari è minore», spiega il titolare. In una pizzeria poco lontana il conto della giornata è presto fatto: «Abbiamo avuto due soli clienti a un tavolo, che hanno ordinato due piatti di pasta e una bottiglia di vino della casa», racconta la titolare. Incasso totale: 25 euro.

 

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