Coronavirus Lazio, Sanguinetti: «I contagi aumentano perché molti hanno patologie»

Lunedì 23 Marzo 2020 di Fabio Rossi
Coronavirus Lazio, Sanguinetti: «I contagi aumentano perché molti hanno patologie»

Maurizio Sanguinetti, direttore del dipartimento di Scienze di laboratorio e infettivologiche della Fondazione policlinico Gemelli e professore ordinario di Microbiologia all'università Cattolica. Perché il numero di contagi continua a crescere da noi più che in altri Paesi?
«Ci sono due problemi specifici, nel Lazio come nel resto d'Italia. Il primo è la percentuale di persone che hanno altre malattie e quindi sono fragili e più facilmente attaccabili dal virus. La seconda cosa è che in Cina è stata militarizzata un'intera regione, da noi è più complicato farlo. Poi, iniziative come l'Italia riparte e simili, possiamo dire che non sono state furbissime: lì c'è stata una maggiore diffusione del virus tra le persone e l'incendio si è propagato in tante fiammelle andate a distanza».

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Intanto la curva dei contagi nel Lazio continua a salire. Cosa rischiamo?
«L'incremento c'è, come possiamo osservare dai campioni che esaminiamo al Gemelli. Più contenuto che al Nord ma c'è. L'importante è continuare a monitorare e isolare i casi accertati. Tutti aspettiamo il picco, per iniziare la discesa, ma in alcune regioni come il Lazio la curva è piuttosto piatta, non appuntita come altrove. Questo ci permette di assorbire meglio il colpo».

Le misure di contenimento decise dal Governo sono adeguate?
«Purtroppo è l'unica strada percorribile al momento, stante l'aumento dei casi soprattutto in Lombardia ma ovunque. Da noi l'aumento è più contenuto proprio perché ci sono queste misure, assolutamente necessarie».

In alcuni Paesi si era immaginato di puntare alla immunità di gregge. Cosa ne pensa?
«L'immunità comunitaria impedisce la penetrazione e diffusione di agenti patogeni. Abitualmente questo concetto si applica ai vaccini: più le persone sono vaccinate, più la popolazione è resistente a un determinato patogeno. Il problema è che in questo caso sarebbe un'immunità indotta dalla malattia. Se si trattasse di un raffreddore ci starei anche».

In questo caso non sarebbe praticabile?
«Il problema è che questa malattia costringe il 10 per cento circa delle persone colpite ad avere necessità di assistenza ventilatoria, e questo dato non è legato all'età. Se si ammalasse un milione di persone, quindi, servirebbero centomila posti di terapia intensiva: non credo che sia praticabile, se non come extrema ratio. E non è ancora sicuro che questa malattia dia un'immunità duratura per chi la contrae e guarisce».

C'è stato un problema dovuto all'eccessivo numero di persone che si sono spostate dalle regioni con maggiore contagio verso il centro-sud?
«Molto probabilmente sì, soprattutto nel primo periodo. Ma a questo punto è anche inutile dirlo, perché ormai è fatta. Adesso concentriamoci sul problema che abbiamo».

Le esperienze di Cina e Corea possono esserci utili per capire cosa ci aspetta?
«Al momento no.

Quella che potrebbe esserci d'aiuto è l'esperienza cinese, considerando però che noi abbiamo avuto un approccio diverso alle misure di contenimento. Noi sappiamo quanto è durata in Cina, ma al momento fare previsioni su quando finirà l'emergenza da noi è quantomeno rischioso. Se diciamo che fra una settimana ci sarà il picco e poi questo non avviene, perdiamo di credibilità. E in questo momento sarebbe la cosa peggiore. Diciamo che il nostro periodo di diffusione potrebbe essere un po' più lungo di quello cinese».

Ultimo aggiornamento: 13:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA