Carminati libero, ecco perché: i legali hanno sfruttato una falla, potrebbe non tornare più in carcere

Martedì 16 Giugno 2020 di Michela Allegri
Carminati libero, ecco perché: i legali hanno sfruttato una falla, potrebbe non tornare più in carcere
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Il re del Mondo di Mezzo, Massimo Carminati, è tornato libero. Ma per quale motivo l'ex Nar, condannato in appello a 14 anni e 6 mesi, ha potuto lasciare il carcere e già oggi rientrerà a casa? La motivazione è tutta tecnica, ed è stata sollevata dai suoi difensori, gli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri, in tre ricorsi distinti. I primi due erano stati respinti, mentre l'ultimo è stato accolto dai giudici. Il Cecato, che è rimasto in carcere per 5 anni e 7 mesi, ha già scontato i due terzi del massimo edittale - cioè la pena più alta possibile in caso di condanna - per il reato più grave che gli viene contestato, cioè la corruzione (con pena massima all'epoca dei fatti di 8 anni di reclusione).

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Il punto è che la sua pena non è ancora definitiva: la Cassazione, lo scorso ottobre, ha ribaltato la sentenza con la quale i giudici di secondo grado avevano riconosciuto l'esistenza di un'associaizone a delinquere di stampo mafioso, e ha disposto un nuovo processo d'appello solo per riconteggiare le pene a carico degli imputati che erano gravati dall'accusa di mafia. I supremi giudici hanno stabilito che a gestire il Mondo di Mezzo fossero due associazioni a delinqure "semplici", capeggiate dal'ex Nar e da Salvatore Buzzi, il re delle cooperative rosse. Da qui, la caduta dell'accusa di 416 bis e la necessità di rideterminare la pena. La scarcerazione di oggi, comunque, non dovrebbe essere definitiva: Carminati, una volta stabilità l'entità della condanna, potrebbe tornare in carcere. Succederà se la pena definitiva dovessere essere più alta rispetto al tempo già trascorso in prigione. Ma c'è un'altra possibilità: se il residuo dovessere essere inferiore ai 4 anni, potrebbe chiedere una misura alternativa.

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Per la Cassazione, l'associazione capeggiata da Carminati non può essere definita un clan per due motivi: non utilizzava armi ed era fondata sul potere di intimidazione esercitato da un nome solo: quellodel Cecato. Il lavoro della procura - i pm erano Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini - ha ricostruito quello che, per i giudici supremi, è uno spaccato desolante del Campidoglio e della città di Roma. Dagli atti emerge infatti il ritratto di una Capitale dove ogni appalto di rilievo veniva assegnato sulla base di favori, logiche clientelari, mazzette. A  scrivere le regole del gioco erano Buzzi e Carminati. Corruttori, ma non mafiosi: secondo la Cassazione nessuno è stato obbligato ad assecondarli. Per farsi strada in Campidoglio bastava domandare e offrire denaro. Gli ermellini, nelle motivazioni della sentenza, sottolineano anche che «non state dimostrate le strette relazioni con altri gruppi mafiosi» che erano state ipotizzate durante l’inchiesta. La capacità di intimidazione della banda, inoltre, sarebbe stata fatta discendere «in modo automatico, e sostanzialmente presuntivo, da Carminati».
Mentre per sostenere un’accusa di mafia il prestigio criminale deve essere «impersonalmente riferibile al gruppo».

 
 

Ultimo aggiornamento: 17 Giugno, 00:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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