Migliori panettoni di Roma, il nero vaniglia di Giorgia Grillo

Finalista ai mondiali dell'Accademia dei maestri del lievito madre, il suo dolce viene chiesto dall'America e dal Giappone

Mercoledì 21 Dicembre 2022 di Alessandro Rosi
Migliori panettoni di Roma, il nero vaniglia di Giorgia Grillo

“Scusami, ma devo rispondere a Carlotta”. L’intervista con la pasticcera Giorgia Grillo viene subito interrotta. Ma non è la figlia a chiamare. “È la sveglia del mio lievito madre. Tutti gli diamo un nome”. Il suo affonda le origini nel quartiere di Garbatella, dove il laboratorio Nero Vaniglia si trova. Precisamente al civico 201 della circonvallazione Ostiense. È qui che si cucina uno dei migliori panettoni di Roma.

Carlotta, il lievito madre

Perché chiama Carlotta il lievito madre? Ho scelto questo nome in onore della fontana Carlotta, che si trova ai lotti.

Mia nonna mi diceva che era il posto dove si raccontavano la giornata e dove prendevano l’acqua da bere. A casa, da piccola, sentivo sempre dire: “Andiamo da Carlotta”. Quando, però, sette anni fa arriva qui trova non poche resistenze.  

L’arrivo

Come sei arrivata alla Garbatella? Cercavo un’attività da aprire. Il caso ha voluto che il pasticcere Gori la cedesse: era arrivato alla pensione. E mio padre era di Garbatella. L’ho sempre avuta nel cuore essendo nata a Roma”. C’erano, tuttavia, delle differenze con quello che aveva in mente lei. “Era un tipo di pasticceria diverso, classica, con le paste grandi. Io, invece, venivo da quasi 10 anni di Cristalli di Zucchero: avanguardista, la prima che ha portato la pasticceria francese in Italia. Avevo un’impronta completamente diversa”.  

Il quartiere

Garbatella è un quartiere legato alla storia e alle tradizioni. “Non è stato facile essere accettata. Non sono stati contenti subito. Perché qui, un tempo, nel negozio c’erano foto della Garbatella appese alle pareti. Erano del pasticcere, a cui piaceva la fotografia. Loro erano nati con questo palazzo. Quindi c’erano immagini dei lotti in costruzione. E le persone ne erano innamorate. Chi entrava e non vedeva le foto si arrabbiava”. Anche il modo di pensare era diverso. “Un signore è entrato qui dentro e mi ha chiesto un “cabaret” di paste! E chi lo usa più come termine! Mi hanno chiesto poi il maritozzo quaresimale. Non sapevo neanche esistesse”. Cos’è? “È un maritozzo più ricco, che si fa nel periodo di Pasqua, probabilmente doveva aiutare nel digiuno pre-quaresimale. Per questo aveva uvetta e fiori d’arancio, anche l’impasto era più denso”. Ma Giorgia è abituata a reinventarsi e cambiare.

Il cambio di vita

Com’è nata la passione per i dolci? “In realtà, a me non piacciono i dolci. Però da piccola, quando mia madre riposava, facevo i biscotti. A 4 anni le ho chiesto il gioco Dolce Forno, lei mi ha detto: “Usa il forno!”. Ma non sceglie subito la strada della cucina. “Prima di diventare pasticcera ero programmatore informatico. Lavoravo per una piccola società che eseguiva alcuni servizi per una multinazionale americana. Dopo la seconda bambina, però, l’azienda taglia il mio ramo. Mi volevano ricollocare, ma come segretaria. E così mi sono licenziata: con un bambino di 3 anni e una figlia appena nata. Mio marito era disperato, avevamo anche un mutuo da pagare. Ho iniziato allora a inviare curriculum. Era il periodo del boom delle aziende informatiche. Si lavorava tanto, anche più di 10 ore al giorno. Ma le compagnie mi dicevano: “Tu hai una bambina, sei sicura di voler lavorare? Ci dispiace, ma non ce la sentiamo di prenderti”. Così, mi sono detta: “Se nessuno mi vuole dare lavoro, me lo darò da sola”. Mi sono messa a fare i dolci e li vendevo ai ristoranti e ai privati”. Non ha però idea di come gestire una produzione più grande. Decide così di seguire un corso al Gambero Rosso.

L'incontro con Marco Rinella

“Lì ho incontrato Marco Rinella, di Cristalli di Zucchero. Mi ha cambiato la vita. Non parlava come gli altri, ma in percentuale. “Mettiamo un 20% di zucchero…”. Ritorna la matematica. “Volevo lavorare per lui. Così lo chiamo tutti i giorni al telefono in pasticceria, mi ero messa la sveglia. Sono testarda. Dopo circa 20 chiamate mi ha detto: “Vieni, facciamo due chiacchiere”. Mi dice però che non prende nessuno che non abbia fatto la scuola di alta pasticceria. Il caso vuole che il fratello, in quel periodo, stava iniziando un corso. Il destino. Ho superato l’esame e, in estate, sono andata a lavorare in pasticceria”. Ma non è come si aspettava.

I migliori panettoni da acquistare nei supermercati: ecco la classifica per le festività 2022

Il licenziamento

Giorgia si trova a lavorare nel negozio, dove si cura la parte finale: quella delle decorazioni. “Io volevo andare al laboratorio. Per me era tardi, avevo già 30 anni, dove imparare. Allora gli dico: “Mi dispiace essere entrata dalla porta di servizio”. E lui mi licenzia, però prima vuole farmi un regalo: così mi manda a vedere come lavorano”. Com’è andata? “Ci sono rimasta 10 anni. Come ho fatto? Devo essere piaciuta ai ragazzi che lavoravano dentro, che hanno fatto cambiare idea a Marco”. 

Le gerarchie

Nel laboratorio non era facile. “Una volta il capo pasticcere mi ha rimproverato davanti a tutti perché gli avevo detto se cambiavamo una parte di un processo per fare prima. “La stagista si è permessa di chiamarmi per nome”. A fine giornata lavorativa, si sedevano e guardavano noi che raschiavamo i pavimenti. Ma io avevo voglia di imparare. Devo dire, però, che la gerarchia serve. Anche se io qui, ora, non ho portato quel nonnismo che ho vissuto”.

Il nome

Perché il nome nero vaniglia? Quando ho aperto frequentavo un corso di approfondimento in Cast Alimenti, la scuola di Iginio Massari. Inizialmente avevo chiamato l’attività Dama Dolce. Mi incuriosiva, però, una caffetteria che si chiamava Nero Caffè: un nome prepotente, forte. Un collega al corso mi dice: “anche la vaniglia è nera”. Così Nero Vaniglia. Che racchiude il mio pensiero: lavorare solo con il naturale, perché molti pensano che la vaniglia sia bianca ma in realtà è nera, bianca è la vaniglina”. Ma quello che Giorgia ama di più è il lievito, perché “essendo di batteri è vivo”. Per il panettone bisogna avere prima di tutto un buon impasto.

L'impasto

Come si fa? “Dal lievito madre si toglie la pelle e si prende il cuore. Gli si dà da mangiare con la farina. Si mette in acqua e poi in frigo per tre volte. Piano piano si cambia vasca, sempre più grande”. Dove ha preso il lievito madre? “Da Cristalli di Zucchero. Ha sei anni il mio, ma parte da Massari, avrà 80 anni”.

I tempi e la beffa

Quanto ci vuole? “Circa 3 giorni, ma se fai un errore devi buttare tutto”. C’è però chi impiega molto meno. “Non tutti sanno che il panettone si può fare in una sola volta con un mix preparato e per la legge italiana si può chiamare “artigianale” perché fatto in pasticceria. Ma è pieno di emulsionanti, coloranti”. Come si fa a riconoscere? “Se compri un panettone a 15 euro, di sicuro è stato fatto così”. 

La preparazione

“Alle 19.30, quando il lievito è pronto, lo impasto”. Come prima operazione per fare il panettone, prende il lievito e lo mette nella tuffante, macchinario con due braccia meccaniche che impasta: lavoro che un tempo eseguiva l’uomo a mano. Consulta poi il libro delle ricette per pesare la farina. “Non uso la manitoba, perché ha un grano geneticamente modificato”. In una ciotola inserisce poi zucchero, la buccia di arancia (che gratta al momento) e vaniglia naturale. “La faccio io. Mi preparo la pasta. La vaniglia spiega anche perché il panettone costa così tanto. È quotata in borsa. Quest’anno veniva 400 euro al kg, un affare, ma l’anno prima 700”. Poi il miele. “Di melata, è di un apicoltore di Castel Gandolfo, che non lo omogeneizza. Ha un sapore forte, carnoso, e un retrogusto di liquirizia. Di solito si usa l’acacia perché è neutro, ho scelto questo perché volevo dargli carattere”. Sale e burro. “Ho sempre utilizzato quelli francesi, perché ne usano più di noi, che lo facciamo dopo il formaggio e quindi ne risente pure il sapore. Quest’anno, però, mi ha convinto un’azienda piemontese”. Tuorli, uvetta dall’Australia e canditi. “L’industria prende la frutta, li spruzza con una macchina che contiene solfiti e dopo 5 ore sono canditi. Invece le realtà artigianali mettono la frutta dentro delle vasche grandi con acqua e zucchero e, per un processo di osmosi, nell’arco di 15 giorni si ottiene il candito. Io scelgo questi. (Camel, scorzone d’arancia dalla Calabria)”. Quali canditi si possono usare? “Il regolamento, da gazzetta ufficiale, dice che bisogna usare canditi di arancio o cedro per il panettone”. Quando è pronto? “Finché non sbuffa, non posso andare avanti con gli altri ingredienti. È un rumore che si inizia a sentire quando la pasta fa dei vuoti d’aria sotto che escono”. 

Fase della puntatura e la pirlatura

Quando l’impasto “sbuffa” è pronto. Inizia allora la fase della puntatura. Se ne taglia uno da 1 kg e poi si ammassano uno vicino all’altro. Non c’è il rischio che si attacchino? “In questa fase, che devono ancora formare la “pelle”, si può. Poi, con la pirlatura, ovvero quando fa girare con la mano più volte per fargli prendere la forma, si dividono. Il termine “pirla” viene da lì, portare in giro”. Il pomeriggio li mette in forno, infine li inforca e li gira a testa in giù, a raffreddare. “Ne faccio 80 al giorno”. Di che tipi? “Classico, marron Glaces, Pere e cioccolato e pere e pecorino”.

La novità

Dal giorno della Befana, però, ce ne sarà un altro di panettone. “Sarà a forma di ciambella”. Come si fa? “Si buca l’impasto con il gomito, nella parte centrale, e poi si “pirla”, una mossa che un maestro dell’Accademia ha visto fare in Perù”. Si aggiungono poi le spezie napoletane, canditi di zenzero e fico, mandorlato.

Il laboratorio da tetris

Con il laboratoio a vista, Giorgia ha voluto mantenere il contatto con il pubblico. Spesso esce a chiacchierare con i clienti. Non è molto grande, ma accogliente. E con un gioco di incastri riesce a far entrare tutto. Ci si muove come tessere del tetris. Capacità che ha nel Dna. “Mio padre è cresciuto in una casa a Garbatella di 30 metri quadri, ci vivevano in 11. Il bagno era piccolo, non c’entravano, e la domenica dovevano andare ai bagni pubblici per sciacquarsi bene. La sera, quando aprivano i letti, non c’era spazio per passare da nessuna parte”. Anche nel negozio sono in tanti e di tutte le nazioni. 

La squadra giovane e multiculturale

“C’è Gin, 24 anni, ha origini cinesi, viene dall’Alma, è al secondo livello. Oronzo è italiano e Paula viene dalla Romania. Tutti giovanissimi, sotto i 30 anni”. 

Il logo e la scatola

La donna sulla scatola del panettone è dell'artista Mucha, un disegnatore dei primi anni dell’Ottocento. "Ce l’ho anche tatuata sul braccio sinistro. Faceva stampe per tanti marchi, come la coca cola. Quella che ho scelto somiglia molto a mia nonna. L'ho messa anche sulla serranda del negozio". 

I clienti

Chi sono i clienti preferiti? “Quelli che non hanno mai mangiato il panettone artigianale e dopo averlo assaggiato il viso gli si allarga con un sorriso”. Chi glieli ordina? “Mi chiedono i panettoni dall’estero: dal Giappone e anche dall’America. È venuto anche a intervistarmi il New York Times. Mio marito pensava che fosse una bufala”. Quanti ne fa d’inverno? “L’anno scorso ne abbiamo fatti quasi 2000. Quest’anno non lo so. Io li faccio senza certezza di vendita”. Il troppo lavoro, però, ha degli effetti negativi. 

Il burnout da lavoro

“Lavoro anche a Natale. A casa arrivo per pranzo. Chiudiamo il 26, il 2 e il 3. Non è semplice per un artigiano chiudere”. Al laboratorio viene alle 6 del mattino da Anagnina, dove abita con il marito che l’aiuta nella contabilità, poi torna a casa anche alle 2 di notte, se ci sono problemi. Quando dorme? “Mi sono portata un lettino, dopo pranzo riposo”. Lo stare sempre nel locale l’ha portata a un “burnout”, così 4 anni fa si è appassionata alle api. “Mi sono detta: devo uscire dal laboratorio. Adesso ho 4 alveari”.

L'eredità

Giorgia ha due miei figli: 20 anni il maschio e 17 la femmina. “Seguiranno le mie orme? Non credo. A 14 anni ho portato mio figlio, non ha funzionato. È vero anche la pasticceria l’hanno subita. La loro mamma non c’è mai. Ho chiesto ad Achille Zoia come ha fatto. E lui: “Facile, l’ho bastonati”. Tutta la famiglia è in pasticceria. Poi è arrivata la nipote e lui le dice: “Sei la più brava”. E poi a me: “Dico a tutti lo stesso, così lavorano di più”.

I segni del mestiere

Sulle braccia diversi segni di abrasione. «Quando tolgo le teglie ci sbatto sopra. L’anno scorso ce l’avevo su tutte le braccia. Le chiamavo le tacche di Natale”. Sulle dita ho tutti calli, non ho sensibilità, perché sforno a mani nude. Però è comodo, perché non mi brucio (ndr, ride)».  

Le recensioni e i premi

Nella bacheca di Nero Vaniglia ci sono diversi premi. “Il primo anno siamo finiti sul Gambero Rosso, in guida. Ci ha aiutati molto. E poi sono venute tutte le altre a catena”. Ma ce n’era una che voleva più delle altre: Re panettone, la fiera a Milano. “Quando lavoravo da Marco era un’ansia. Incominciavamo a lavorare da novembre. Appena ho aperto qui ho mandato il mio panettone. Lo analizzano e poi lo assaggiano a luglio. Mi hanno preso". A Parma, poi, raggiunge la finale dell'Accademia dei maestri del lievito madre. "C’erano nomi che per me erano come quelli dei calciatori. E io? Finalista. Mi sono arrampicata sul palco. C’era gente vestita da galà, io in jeans e maglietta. Il mondiale a Milano, nel 2019”. E poi quest’anno è entrata in Accademia maestri del lievito madre di Parma. Qual è la sua firma? “Il mio panettone era molto irrequieto, aveva gli alveoli giganti. Alcune volte veniva sformato perché lo inforcavo troppo velocemente. Adesso è cambiato. È più addomesticato. Ma si evolve ogni anno. Come dice mio figlio: è un transformer". C’è un riconoscimento a cui tiene più degli altri. “È il premio di miglior bottega di Roma, mi portava sempre all’evento mio padre. Lui faceva il tappezziere. Aveva il negozio qui vicino, era un artigiano come me. Stava tutti i giorni in bottega. Ha iniziato a 8 anni”.

Il padre e il panettone alle rose

Alla sua famiglia Giorgia ha voluto dedicare un panettone particolare. “Mio nonno abitava all’albergo rosso. Si era innamorato (a 14 anni) di mia nonna e dalla loggetta le lanciava le rose quando passava. L’ha conquistata in questo modo. Così ho voluto fare un panettone di rose”. Che ha riscosso grande successo. “A me non piacciono i dolci, ma sono contenta quando vedo le persone che li apprezzano. Lavoro per il loro sorriso”.

Ultimo aggiornamento: 16:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA