Spelacchio, gaffe al funerale di una vittima di malgoverno

Mercoledì 10 Gennaio 2018 di Mario Ajello
Doveva essere deposto, come un caro estinto qual è, insieme ai suoi addobbi, alle palle di Natale pendenti dai rami secchi, ma anche alle centinaia di bigliettini appesi alle sue spoglie, del tipo: «Sei orrendo ma ti voglio bene». E così, la salma di Spelacchio è stata svestita. 

Come quella del dittatore georgiano in «Morto Stalin se ne fa un altro», gustosissimo film appena uscito nelle sale con Steve Buscemi nella parte di Kruscev e un Berija strepitoso. Ma il che fare? - questa invece è una citazione leninista - è immediatamente piombato sul povero abete rosso che sembrava destinato al Paradiso (dei bruttini) e allora contrordine compagni. Spelacchio, dopo la svestizione, è stato subito rivestito, con tanto di luci smontate, rimontate e riaccese dai tecnici del Comune inerpicati sullo scheletro, per tenerlo a Piazza Venezia fino a giovedì.

Quando verrà celebrato un funerale in pompa magna - Giuseppe Gioachino Belli dove sei? non puoi raccontarci tu le esequie dell’abete rachitico come facevi con quelle dei grassi papi? - e poi come estrema fatica e come tormento supplementare gli toccherà reincarnarsi forse in una casetta per mamme e bebè, con tanto di fasciatoio, nella sua Val di Fiemme in cui farà ritorno e in parte anche in una non ben identificata «creazione artistica» che resterà quaggiù come monumento all’autolesionismo locale. 

Intanto, «e fai le valigie, e posa le valigie», come si sghignazza sul web, e insomma smontalo, rimontalo, prepara la partenza, bloccala, muovilo, fermalo... Nel tentennamento più plateale, nella vaghezza più totale da parte di chi mai ha saputo prendersi cura di lui e anche nella fase dello smaltimento (a cui secondo i suoi fan dovrà seguire la beatificazione o almeno l’imbalsamazione) non sa come maneggiare il poveretto. 

Ecco, nella Roma invasa dai rifiuti Spelacchio è diventato il rifiuto più ingombrante che c’è. Lui non fa problemi - e twitta così: «Dice che forse me vonno mette ar museo. A Caravaggio, scansete!» - ma anche la sua rimozione si sta rivelando un problema di tempi e di modi e ieri l’Urbe ha vissuto un’altra giornata di suspense per il suo albero che non è destinato a riposare in pace pur essendo già morto da un pezzo. Non volendo aggiungere rifiuto ai rifiuti straboccanti, per ora lo hanno lasciato lì. E nelle sue esequie rinviate c’è l’ennesima riprova dell’incertezza che grava su tutti gli scarti capitolini.

Perfino su quello che è diventato il più famoso di tutti, il più pop di ogni altro e che sarebbe potuto assurgere, con un po’ di lungimiranza in più, a emblema di come il Comune che non ha saputo maneggiare la sua vita poteva diventare il buon regista di una sua morte lineare, senza ulteriori scossoni e polemiche, sanamente priva di sovrastrutture sociologizzanti, del tipo eco-equo-solidali, così espresse dalla sindaca: «Di Spelacchio, di questa star internazionale, vogliamo fare un esempio concreto di riuso creativo». Anche se lui recalcitra via web: «Dopo che divento ‘na casetta pe’ ‘e mamme, che artro devo fa’? Spazza’ pure pe’ tera?». 

Insomma, la sfortuna del malcapitato ospite continua. E il volersene liberare ma non essere capaci di farlo rappresenta platealmente quel deficit di decisione istituzionale che, in tanti altri campi, ben più importanti rispetto alla sorte di un abete, i romani ben conoscono. In questo, Spelacchio è diventato uno di noi. 
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