Rebibbia, la detenuta che ha gettato figli dalle scale: «Ora sono liberi»

Mercoledì 19 Settembre 2018 di Alessia Marani e Adelaide Pierucci
Rebibbia, la detenuta che ha gettato figli dalle scale: «Ora sono liberi»
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«La sequenza ripresa dalle telecamere di videosorveglianza interne al carcere e cristallizzata dal racconto di due testimoni è agghiacciante: Alice Sebesta, 33 anni, detenuta a Rebibbia per traffico di stupefacenti, spinge la carrozzina in cui riposa Faith, la figlioletta di appena 6 mesi, mentre per mano tiene il bambino più grande, di un anno e 7 mesi. Le altre mamme sono in fila per il pranzo, lei invece che non familiarizza e non parla l'italiano, prende le scale che conducono all'area verde con i giochi per i piccoli della sezione nido.

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In un attimo si consuma la follia, senza precedenti: Alice sbatte il più grande contro il muro, poi spinge la carrozzina con forza, scaraventa entrambi giù dalla tromba delle scale, volano per due piani, per Faith non c'è scampo, muore sul colpo. Il secondo bimbo, portato in ambulanza prima al Pertini poi all'ospedale pediatrico Bambino Gesù, ha riportato un grave trauma da caduta con un danno cerebrale «severo» ed è stato dichiarato oggi clinicamente morto.

«Non siamo riusciti a fermarla», dicono i testimoni. «I miei bimbi sono volati in cielo», dice spaesata al procuratore aggiunto del pool antiviolenza di piazzale Clodio, Maria Monteleone, e al comandante del Nucleo Investigativo dei carabinieri di via In Selci, Lorenzo D'Aloia, che la interrogano. Un dialogo straziante, quasi surreale. Alice a tratti piange e si dispera, alterna momenti di instabilità ad altri di lucidità. Come Medea, però, è consapevole di avere agito per uccidere i suoi figli. La donna, nata in Germania - così i due bambini -e cittadina georgiana, il 27 agosto era stata intercettata dai carabinieri dei Parioli sulla tangenziale in auto con due nigeriani, dentro il veicolo furono rinvenuti 10 kg di marijuana.
 

«Mi hanno dato un passaggio per la stazione Tiburtina, dovevo prendere il treno per tornare a Monaco di Baviera, non sapevo della droga», si era giustificata. I due uomini furono rimessi in libertà, ma lei finì a Rebibbia, con i figli. «Chiedeva sempre quando sarebbe uscita», dicono dal carcere dove ieri ha telefonato anche il papà dei bambini, che è in Germania, e a cui nessuno inizialmente aveva il coraggio di dire che Faith non c'era più. «Aiutami a farmi uscire», ripeteva Alice al suo avvocato Andrea Palmiero. Era depressa, non reggeva lo stress.

La scarcerazione, a dire il vero, sembrava a portata di mano. Il giudice aveva bisogno di un domicilio sicuro dove assegnarla ai domiciliari e lei lo aveva trovato, a Napoli, da un amico. Ma poi il magistrato competente era cambiato e il nuovo, ritenendo che «il quadro indiziario non fosse modificato» e senza fare riferimento ai minori, il 7 settembre ha respinto la richiesta. Proprio ieri mattina il Tribunale del Riesame si era riunito per decidere, alle 12 invece è avvenuta la tragedia. Alice è stata arrestata per l'infanticidio e il tentato omicidio. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, accompagnato dal Capo del Dap Francesco Basentini, dopo essersi recato prima a Rebibbia e poi al Bambino Gesù, ha riferito di avere subito avviato un'inchiesta interna per ricostruire l'esatta dinamica dei fatti e accertare eventuali profili di responsabilità.

Al vaglio anche le relazioni degli agenti che avrebbero parlato di una situazione di disagio della donna forse legata a una crisi post partum.
Al colloquio al primo ingresso sarebbe stata richiesta una visita psichiatrica ma la 33enne non risulterebbe in cura. Il primo ad avere reso noto il dramma è stato Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria e responsabile della Casa di Leda, la prima (e unica) casa protetta in Italia per ospitare le mamme detenute con i loro bambini. «Mi ha chiamato un volontario, era sotto choc. Basta bimbi nelle carceri - tuona - nel 2011 è stata approvata una legge in tal senso, sono passati 7 anni e non viene applicata». Daniele Nicastrini del sindacato Uspp parla di «un'ulteriore trauma quando a 3 anni i bambini vengono affidati ai servizi sociali» e punta il dito contro «l'impiego della videosorveglianza non in ausilio agli agenti ma in loro sostituzione, come nell'area aperta del nido».

Ultimo aggiornamento: 20 Settembre, 12:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA