Non è terrorismo/ L’ultimo bluff del Califfato in difficoltà

Martedì 3 Ottobre 2017 di Gianandrea Gaiani
La rivendicazione dello Stato Islamico della strage di Las Vegas e dell’uccisione di due ragazze alla stazione ferroviaria di Marsiglia suscita non poche perplessità. Nel caso dell’atto terroristico in Francia non sorprende che l’Isis abbia voluto attribuirsi la paternità di un’azione condotta da un musulmano. Tra l’altro già noto per le sue azioni criminali. Si tratta di «rivendicazione d’opportunità» attraverso la quale l’organizzazione jihadista annovera tra i suoi ”soldati” chiunque colpisca gli infedeli.

Lo aveva già fatto in molte altre occasioni dopo che, tre anni or sono, Mohammed al-Adnani (il responsabile della propaganda dell’Isis ucciso nell’agosto 2016 dai missili di un drone statunitense) aveva esortato i simpatizzanti della causa jihadista a colpire gli infedeli in Occidente utilizzando qualsiasi arma impropria e soprattutto coltelli e veicoli. Un «ordine operativo» che ha permesso al Califfato di mostrare i muscoli dimostrando quanto numerosi siano i suoi adepti in Europa, anche tra i musulmani privi di precedenti terroristici e spesso neppure conosciuti come radicalizzati.

Diverso è il caso della strage di Las Vegas, dove appare poco credibile la rivendicazione per la strage compiuta da Stephen Paddock, 64enne bianco, accanito giocatore ma benestante e amante della musica country (come riferisce il fratello), con una fedina penale pulita e noto alla polizia solo per alcune infrazioni stradali e per aver fatto causa a un casinò di Las Vegas.

Strano terrorista islamico questo Paddock, titolare di un brevetto da pilota e che possiede ben due aerei ma non li impiega per colpire gli Stati Uniti dall’aria come non è più accaduto dall’11 settembre 2001. Amaq, l’agenzia di propaganda del Califfato, ha annunciato che l’esecutore della strage che ha provocato una sessantina di morti e più di 500 feriti «è un soldato dello Stato islamico che si era convertito all’Islam diversi mesi or sono» e che ha agito «rispondendo alla richiesta di colpire i Paesi della coalizione».

Una conversione di cui non sembra però esserci traccia nelle indagini della polizia né nei racconti di parenti e amici di Paddock. Pur senza escludere sempre possibili sviluppi delle indagini, anche il suicidio dell’uomo poco prima che la polizia potesse catturarlo non rientra nel modus operandi dei terroristi islamici, solitamente più propensi a farsi esplodere, a combattere fino alla morte o a farsi catturare per rivendicare con orgoglio il gesto compiuto.
Il suicidio dopo aver compiuto la strage è invece un tratto tipico di tanti protagonisti delle stragi nei campus universitari o in altri luoghi affollati effettuate da killer affetti da turbe mentali o decisi a vendicare presunti soprusi subiti ma privi della motivazione ideologica che fa di un assassino un terrorista.

Valutazioni che inducono a ritenere probabile che lo Stato Islamico non abbia voluto perdere la ghiotta occasione di accreditarsi come patrocinatore della più grande strage compiuta con armi da fuoco negli Stati Uniti non solo in virtù del proclama di al-Adnani ma anche alla luce del video diffuso dall’Isis il 27 giugno 2016 in cui venivano mostrate immagini notturne delle affollate strade di Las Vegas e San Francisco indicandole come ideali per azioni terroristiche.

Un «campo di battaglia» perfetto per colpire con azioni simili a quella effettuata nella discoteca gay «Pulse» di Orlando, in Florida, dove Seddique Mateen, afghano con cittadinanza statunitense, uccise l’11 giugno dell’anno scorso 49 persone prima di venire abbattuto dalla polizia.

Inoltre il bersaglio scelto da Paddock è simile a quelli colpiti in più occasioni dai terroristi islamici che hanno effettuato azioni suicide e blitz contro concerti a Parigi, Manchester e Ansbach (Baviera) e contro discoteche a Istanbul e Orlando.

Precedenti che potrebbero aver indotto il Califfato a cogliere l’occasione per rivendicare la strage al concerto di Las Vegas potenziando l’immagine di forza già espressa nelle ultime ore con gli attacchi di Edmonton (Canada) e Marsiglia di chiara matrice islamica. L’Isis ha del resto bisogno di dare visibilità ai suoi attentati terroristici dopo i rovesci militari subiti sui campi di battaglia in Iraq e Siria e soprattutto dopo l’audio reso noto la scorsa settimana in cui Abu Bakr al-Baghdadi esorta a continuare a combattere e a colpire indicando negli Stati Uniti «un Paese fiacco e appesantito da immensi debiti» in preda a una crisi che rende l’America «candidata ad un collasso che trascinerà con se molti altri Stati».

Un audio messaggio che aveva lo scopo di dimostrare che il leader dello Stato Islamico è ancora vivo (i russi ritengono «probabile» di averlo ucciso con un raid aerei a Raqqa il 28 maggio scorso) ma che non ha convinto molti per l’assenza di riferimenti diretti a fatti successivi la sua presunta morte. Allo stesso modo non sembra convincere la rivendicazione del Califfato della strage di Las Vegas.

A ben guardare un problema di poco conto per lo Stato Islamico la cui propaganda anche in questo caso non sembra rivolta ad apparire credibile agli occhi degli «infedeli» ma semmai a dimostrare all’opinione pubblica musulmana, specie ai tanti fans del jihad presenti anche in Europa, che il Califfato e il califfo sono vivi, combattono e sono ancora in grado di colpire duro.
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