Terrorismo, sei combattenti Isis in Italia: in carcere 153 detenuti pericolosi

Venerdì 6 Gennaio 2017 di Sara Menafra
Terrorismo, sei combattenti Isis in Italia: in carcere 153 detenuti pericolosi

Sono pochi, rispetto al fenomeno europeo. Ma da qualche tempo, i combattenti di ritorno dal fronte siriano e iracheno, esistono anche in Italia. Foreign fighters che hanno passato anni a combattere e che gli esperti italiani ed europei considerano candidati a proseguire la guerra jihadista anche una volta tornati nel continente. L'Antiterrorismo della Polizia italiana ne ha identificati sei «presenti sul territorio nazionale», sul complesso di 110 combattenti che dall'esplosione del conflitto in Siria e Iraq sono partiti per arruolarsi. Il numero, che oltre ai miliziani del terrore, comprende anche coloro che si sono arruolati negli altri fronti di guerriglieri (in Italia arruolarsi con organizzazioni terroristiche all'estero è reato) è contenuto nel rapporto della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista che ieri ha consegnato le proprie conclusioni in 42 pagine al presidente del consiglio Gentiloni. Una fotografia che identifica quelli che sono tornati, ma anche il fenomeno degli italiani convertiti: «I foreign fighters collegati con l'Italia sarebbero 110. Tra essi 32 sarebbero deceduti nel teatro siro-irakeno, 17 sarebbero ritornati dal conflitto ma solo 6 si trovano sul territorio nazionale. Dieci sono donne (di cui 8 con cittadinanza italiana), 11 sono convertiti (ma solo 3 si sarebbero convertiti in Italia), 5 minorenni».

IL PROSELITISMO IN CARCERE
La commissione sottolinea che i numeri «sono decisamente inferiori a quelli della maggior parte dei paesi europei». E i dati confermano: in Francia i fighters sono almeno 1.500 dalla Germania sono partiti in 1.000, in 500 dal Belgio. Ma se questo fenomeno nel nostro paese è meno pervasivo che altrove, forse anche perché i migranti di seconda generazione sono pochi, sostengono i membri della commissione, il proselitismo, specie attraverso la rete, è invece in costante crescita.
«Se le prigioni hanno avuto un ruolo nei processi di radicalizzazione della scena jihadista italiana, si può dire con tranquillità che il web lo abbia giocato per tutti», scrive la commissione. E il fenomeno più interessante è la crescita di veri e propri «cyber-propagandisti» del jihad, una comunità attiva anche in Italia «intesa non come una struttura monolitica e compatta bensì come una rete dai nodi più o meno stretti». L'identikit dei propagandisti in rete comprende, e il dato è molto interessante per l'Italia, italiani convertiti all'Islam: «E' una scena - si legge nella relazione - composta da giovani tra i 18 e i 24 anni, con molti convertiti e soggetti nati o perlomeno cresciuti in Italia». I soggetti «segnalati» sono in crescita, dentro e fuori dal carcere: «Solo i Ros dei Carabinieri hanno ricevuto 1.400 segnalazioni di casi di potenziale radicalizzazione nel 2015, e 2000 da gennaio ad agosto 2016». Sotto controllo, dicono i commissari la situazione nelle carceri: «Secondo un recente censimento effettuato dal Dap, i detenuti attualmente sotto osservazione per legami fattuali o ideologici con il terrorismo sono 345. Tra questi, 153 sono classificati come ad alto rischio radicalizzazione». E di questi, dice il documento del Dap, 18 sono italiani e 35 i condannati per terrorismo. Chiara la sintesi: «Anche in Italia è presente una scena informale che adotta l'ideologia jihadista». Che nei prossimi anni potrebbe crescere.
Nelle conclusioni, la commissione riconosce l'efficacia delle leggi italiane nel reprimere chi si avvicina alla jihad. Ma sulla prevenzione, aggiunge, la strada è lunga mentre molti paesi europei hanno da tempo avviato meccanismi di Cve, contrasto all'estremismo violento. L'Italia dovrebbe allinearsi al resto dell'Unione, operando su tre livelli: «Al macro livello, adottando misure di contro-narrativa per contrastare l'attività del messaggio jihadista; al meso livello, attraverso misure di ingaggio positivo con le comunità e i segmenti ad alto rischio di radicalizzazione; al micro livello, attraverso interventi sui singoli individui, segnalandoli ad esponenti della società civile il cui compito è cercare di distoglierli dal credo jihadista».

IL PROGETTO
«Finora l'Italia non ha sperimentato una strategia di prevenzione della radicalizzazione», ha spiegato in conferenza stampa Lorenzo Vidino, professore e presidente della commissione di cui hanno fatto parte anche ricercatori e giornalisti. «L'istituzione di presenze sul territorio per intervenire sui giovani a rischio radicalizzazione è una novità assoluta», dice il giornalista Carlo Panella. Il rapporto sarà ora inviato alle Camere che potrebbero usarlo per integrare i progetti di legge già in discussione sul tema.
 

Ultimo aggiornamento: 7 Gennaio, 08:26