Fermo, Emanule è morto cadendo per un pugno. La moglie: «Voglio incontrare l'assassino»

Venerdì 8 Luglio 2016 di Lolita Falconi e Andrea Taffi
Fermo, Emanule è morto cadendo per un pugno. La moglie: «Voglio incontrare l'assassino»

FERMO Ha rimediato un pugno alla parte sinistra della mandibola (non abbastanza violento da rompergli denti) e un colpo con una superficie estesa (il segnale stradale?) al polpaccio. Ma Emmanel Chidi, il 36enne nigeriano richiedente asilo ucciso martedì scorso in centro a Fermo in seguito a insulti razzisti alla moglie e successiva colluttazione con un ultrà della Fermana, è morto per una frattura alla nuca compatibile con l'urto con il marciapiede.
Lo scenario che affiora dall'esame avvenuto all'ospedale di Fermo ieri pomeriggio tratteggia un assalto, quello dell'ultrà Amedeo Mancini, cieco ma non ultimativo, almeno nelle premesse (due colpi, tutto compreso, che vanno ad aggiungersi a riscontri secondari, un ematoma al polso e altre abrasioni sul resto del corpo) con il quale il fermano intendeva vendicarsi della rappresaglia degli africani seguita agli insulti razzisti.

In linea di principio, pertanto, siamo ancora nel limite dell'omicidio preterintenzionale: un assalto che voleva fare male ma non uccidere.
 

LA TAC
A concorrere con l'esito finale, ci sono anche i documenti diagnostici di una Tac svolta su Chidi all'arrivo in ospedale quando era in fin di vita. È finita nell'esame irripetibile che è stato condotto dal medico legale Alessia Romanelli a cui hanno assistito anche i periti di parte Elena Mazzei, per la difesa di Mancini, e Monica Bartolucci, per la parte offesa rappresentata dalla compagna di Emmanuel, affiancata dalla fondazione Caritas in Veritate che si costituirà parte civile.

Fino a quel punto poteva venire abbastanza semplice attribuire ogni responsabilità ad Amedeo Mancini. Pesavano la canotta, con logo e scritta richiamanti l'estrema destra, indossata al momento dell'insulto becero che ha scatenato questo inferno. E pesavano un passato nel quale, più o meno, l'ultrà ha lambito posizioni xenofobe nel corso della sua vita. Poi c'erano anche i guai maturati seguendo il calcio negli ultimi anni. Infine c'era la scorciatoia dell'ovvietà: in quel tragico martedì pomeriggio Mancini ha insultato Chinyery, la donna, e poi nella resa dei conti alimentata dai nigeriani offesi si è fatto giustizia da solo aspettando il momento propizio dopo le botte rimediate.

LE RICOSTRUZIONI
La controparte invece garantisce che la resa dei conti dei tre nigeriani era quantomeno un'aggressione studiata, che Emmanuel si era presentato brandendo il paletto di un segnale stradale e la moglie ha partecipato attivamente mordendo Mancini al braccio sinistro o comunque rivestendo una parte attiva. «Mancini - dice il legale De Minicis - ha un grosso ematoma sul costato che gli provoca forti dolori e un'altra ferita a un braccio compatibile con un morso o una sprangata, oltre a varie lesioni più lievi in altre parti del corpo». Insomma, bisognava difendersi in qualche modo: quindi l'aggravante razziale sarebbe fuori luogo dal computo penale dell'omicidio. Non fino a toccare il limite superiore dell'eccesso di legittima difesa ma, certo, senza il presupposto dell'aggravante che poteva costargli 24 anni di carcere. Anche per questo la Procura, nelle prime ore di questa complessa vicenda, si è mossa con grande circospezione.

Convergono invece le ricostruzioni dell'antefatto: il momento becero dell'insulto razzista («scimmia africana») vomitato gratuitamente da Mancini nel plastico stile da attaccabrighe che tutti gli riconoscono in paese e la colluttazione successiva tra Emmanuel, il connazionale che era con lui e la moglie. Con l'autopsia ci si può avvicinare quindi a una ricostruzione dove da un insulto razzista e una zuffa si è arrivati a un tragico sipario.

Ultimo aggiornamento: 9 Luglio, 17:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA