Moro, 40 anni fa il rapimento: raccontate quella mattina

Venerdì 16 Marzo 2018
La mattina del 16 marzo 1978 in via Fani a Roma un commando delle Brigate rosse rapisce Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, e uccide tutti gli uomini della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Il cadavere di Moro venne ritrovato 55 giorni dopo, il 9 maggio 1978, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani, a metà strada fra piazza del Gesù, sede della Dc, e via delle Botteghe oscure, sede del Pci. Raccontate i vostri ricordi di quella mattina di 40 anni fa scrivendo a moro@ilmessaggero.it.


I ricordi dei lettori del Messaggero

A scuola, quarta elementare, entra in classe l'insegnante di educazione fisica e da la triste notizia. Il pomeriggio niente compiti ma davanti alla tv a vedere il discorso di Lama.
Antonio 

Quella mattina il sonno si era prolungato rispetto alle mie abitudini. Giovane studente universitario un po’ viziato , senz’altri impegni che lo studio ma sufficientemente costante nello stesso . Facoltà di Scienze Politiche. Nessun orario preciso ma quel minimo di autodisciplina che m’imponeva di alzarmi verso le otto di mattina per cominciare a studiare attorno alle nove. Quel giorno alle 8 ero ancora nelle braccia di Morfeo. Fu solo quel rumore insistente che mi svegliò poco dopo . Un rumore indecifrabile, nei primi istanti confusi della veglia, ad ondate, che si ripresentava ostinatamente . Dapprima piano  poi , via via , sempre crescente, per poi decrescere progressivamente. Il mio sonno ostinato si ribellava a quell’intrusione. Ma il frastuono si ripeteva ostinatamente sempre con il medesimo schema. Finalmente la mente annebbiata riprendeva coscienza . Erano sirene. Urlavano, in lontananza; si avvicinavano, assordanti a dispetto dei sei piani dal livello della sottostante strada, per poi allontanarsi lamentose ed inquietanti. Mi resi conto nell’intorpidimento del dormiveglia che dovevano essere passati almeno 5 minuti dall’inizio di quella sinfonia angosciante. Indubbiamente qualcosa di grosso stava avvenendo. Finalmente sveglio, allungai la mano ed accesi la radio in un gesto quasi abituale dopo il risveglio ma che, quella volta, era pieno d’inquietudine. Un giornale radio, in quell’esatto istante, comunicava con voce tremulante un messaggio di questo tenore: “apprendiamo in questo momento che il presidente della Dc, Onorevole Aldo Moro sembra sia stato rapito presso la sua abitazione nella zona di Monte Mario e che alcuni uomini della sua scorta sono stati uccisi”. La notizia era dirompente, com’è ovvio, ma per me lo fu di più. Ero stato uno studente politicizzato e fortemente condizionato nel suo pensiero dalla lunga onda post-sessantottesca. Ma da tempo il mio impegno era andato scemando man mano che una parte aveva deciso di “alzare il livello dello scontro” imponendo di fatto a tutti la propria determinazione. Ma non era “politica” la ragione del mio turbamento. Era molto più terra-terra e privata. Meno di un anno prima ero stato protagonista di uno strano episodio tipico della mia “carriera” di studente poco assiduo in facoltà e non troppo attento.  Ero giunto in ritardo, per una serie di equivoci che non ricordo bene a distanza di 40 anni, anche se molto ben preparato, all’esame di Diritto e Procedura Penale esattamente nel momento in cui l’aula dell’esame stava per essere chiusa fisicamente. Mentre cercavo disperatamente di convincere il solito, zelante ed arrogante il giusto, assistente o portaborse che dir si voglia della mia assoluta buonafede, ormai rassegnato al peggio si udì da dentro l’aula una voce che suonava stranamente familiare. Messo al corrente dal suo assistente del “qui pro quo”, la voce con cordialità davvero inusitata in quell’ambiente, decretava: “ ma no, lo faccia entrare, non abbiamo ancora chiuso il verbale“. Era, naturalmente, Aldo Moro. In quell’esame, in virtù della preparazione e dell’adrenalina che la situazione mi aveva generato, il mio rendimento fu davvero elevato. Ricordo che Moro si mostrò compiaciuto e volle bonariamente rimproverarmi, per non aver frequentato il suo corso ammonendomi sulla necessità di partecipare alla vita pubblica in tutte le sue forme. Il tutto con una mitezza ed umiltà veramente fuori del comune. Una lezione vera, data con naturalezza, da una persona che ebbi modo d’incontrare faccia a faccia solo per quella mezzora di vita. Da quel momento, credo, cominciai a capire come il valore di una persona non si possa misurare attraverso la lente di qualsiasi pregiudizio.
Fabio. R.

Quella mattina, la notizia del rapimento a del giornale Radio Rai, la dette un collega che abitava proprio in via Fani, Giorgio Chiecchi. Cesare palandri che stava conducendo il giornale radio, interruppe la trasmissione e dette all'Italia la notizia del rapimento. Giunsi in via Fani, insieme al capitano dei carabinieri Luigi Magliuolo, comandante la  tenenza di Roma Trionfale. Toccò a lui riconoscere i morti della scorta, che conosceva  benissimo. Uno spettacolo incredibile. Venti minuti dopo, arrivò il collega Paolo Fraijese del Telegiornale Uno e cominciammo una lunga diretta, raccontando quella scena terribile. Nell'auto, c'era ancora la borsa di Moro, sul sedile posteriore, poi si avvicinò un tale in borghese, bisbigliò qualcosa all'orecchio del carabiniere a guardia, prese la borsa e non lo vedemmo più. Chissà cosa c'era in quella borsa dello statista, mai più ritrovata. Uno dei tanti misteri italiani.
Franco Bucarelli         

Più che del 16 marzo, che pure aveva destato, anche in noi adolescenti in quegli anni, tanto stupore ed una velata angoscia, voglio ricordare la mattina del 9 maggio: i 55 giorni della prigionia di Aldo Moro avevano significato, per molti di noi, la definitiva presa di coscienza che qualcosa all’improvviso avrebbe potuto cambiare tutto nelle nostre vite, nel quotidiano scorrere di vicende apparentemente banali. Il 16 Marzoavevamo appreso la notizia a scuola, più o meno a metà mattinata: era stato necessario che qualcuno si sintonizzasse su una radio o su una TV, non c’erano palmari, allora, a darti la notizia in tempo reale. Sgomento certo, incredulità, che segnavano l’inizio di una storia infinita, eppure durata solo 55 giorni. Il 9 Maggio lo ricordo ancora meglio: era una bella giornata a Palermo, come è normale che sia, in Sicilia, in primavera inoltrata. Ci si avviava alla fine dell’anno scolastico. in tanti avevamo sperato che un cambiamento politico forte si traducesse in un cambiamento sociale e civile. Anche molti di noi borghesi speravamo in una società più giusta, più evoluta. Lo scenario politico venutosi a determinare, con la necessità di un coinvolgimento del PCI alla massima responsabilità nazionale, sembrava davvero introdurci in un mondo nuovo. I 55 giorni avevano messo in luce tutti i rischi che questo passaggio poteva comportare. I messaggi inquietanti venuti fuori in quei giorni (il falso messaggio del lago della Duchessa, le ultime lettere del Presidente, la supplica del Santo Padre agli “uomini delle brigate rosse”) facevano presagire un futuro a tinte fosche ma, come ogni ragazzino che ha il nonno malato, avevamo fiducia nella guarigione del nostro nonno. Si, perché il Presidente era diventato per noi una persona di famiglia. Un uomo così potente, certamente non sempre separato dalle manovre oscure del potere, era da tutti noi vissuto come una figura mite, indifesa, portatrice e nello stesso bisognosa di affetto e di cure. Quella bella giornata del 9 maggio l’aula della IV A era quasi piena, mancava solo un compagno, al primo banco della fila vicino alla porta. La solita bella lezione sul Purgatorio, poi la lezione di matematica….. Ecco che arriva Liborio, trafelato, a raccontarci che il treno da Cinisi era stato bloccato da un attentato che c’era stato sulla linea ferrata: un ragazzo del suo paese era stato fatto saltare in aria, probabilmente ucciso dalla mafia locale (quanti anni passeranno affinché questa verità raccontata da un adolescente diventi verità giudiziaria!). Sconvolti, continuiamo la lezione ancora per qualche tempo, quando un inserviente irrompe irritualmente in aula, in piena lezione, senza bussare, e comunica la tragica notizia: tutti in strada, non si sa perché, forse per partecipare al più grande funerale che l’Italia abbia mai conosciuto. Era una bella giornata, quel 9 maggio, a Palermo, una bella giornata con il cielo plumbeo. Due morti tragiche, chissà se così tanto lontane come la verità giudiziaria le ha lette e interpretate…. Da allora, niente sarà più uguale: il Santo Padre scomparirà a fine estate, Enrico Berlinguer si trascinerà stancamente ancora per 6 anni. Nel frattempo il Paese non sarà più quello che era, ma soprattutto non sarà mai più quello che avevamo sognato.
Gregorio

E' con grande commozione scrivere alcune righe per ricordare quell'evento che sconvolse quella giornata. Avevo 22 anni e come oggi (non e' cambiato nulla) avevo un lavoro precario in un ufficio a fare il factotum. Ascoltavo la radio e ad un certo punto le trasmissioni si interruppero e la notizia scardino' la vita quotidiana di ognuno di noi. La gente era sconvolta e tutti parlavano dell'accaduto. La mia curiosita' di ventenne mi spinse a prendere la moto e correre dove era successo l'irreparabile. Siccome il mio lavoro era talmente vicino al massacro che ci misi poco tempo ad arrivare. Questo mi permise di arrivare prima che tutte le forze di polizia chiudessero la zona. Vidi cose che ancora mi rattristano. In una zona all'epoca tranquilla era successo qualcosa di enorme per noi cittadini e brava gente. Emozioni, rabbia, paura, tristezza per qelle persone morte sotto la ferocia di infami assassini. Animali, bestie, cialtroni che hanno distrutto la vita di quelle famiglie di povera gente. Giorni, settimane, mesi di vita quotidiana messa a dura prova dai controlli giornalieri e da una paura che imperversava lungo le strade delle nostre citta'. Ad oggi? Ad oggi stiamo qui a ricordare questa infamia di persone (non si possono definire tali)che per anni hanno infangato e distrutto questo paese. Processi, titoli dei giornali, pubblicita', risorse del paese messi a disposizione di questi farabutti assassini negli anni a venire per dei processi inutili. In carcere a vita senza poi cercare di recuperarli in questa societa' che da diritti ai colpevoli assassini e mette da parte le famigli massacrate. Dovremmo, come per quei partiti di destra che dovrebbero essere sciolti.....far sparire quelle fazioni di sinistra estrema che ancora oggi vengono "appoggiati politicamente". Il mio ricordo e' per i poliziotti trucidati,per le loro famiglie che hanno messo a "disposizione" la loro vita per la democrazia. Democrazia che oggi esiste ancora per questi personaggi politici mediocri! Grazie per avermi fatto rivivere momenti della mia gioventu' benche' momenti tristi e bui di quel periodo.
Franco

Abitavo in Via Mario Fani 34, all'altezza dell'incrocio con Via Sangemini; avevo 10 anni e quella mattina attendevo mia madre che mi portasse alla Scuola Elementare “Giacomo Leopardi”. Spesso, mentre aspettavo la mamma che si preparasse, mi mettevo sul balcone a vedere le macchine e quella mattina fui attratto dalla Fiat 130 blu lucida e da quell' Alfetta bianca; dissi a mia madre “Guarda che belle macchine sono passate !” , lei venne sul balcone e fu un attimo...il rumore di quei colpi di mitraglietta che giungeva dall'incrocio più in fondo. Le altre auto facevano marcia indietro, la gente correva, mia madre mi portò subito dentro casa, uscimmo e sotto al portone la gente non capiva cosa fosse successo, molti volevano andare a vedere. Sembravamo tutti impazziti. Arrivammo a scuola, ricordo i pianti delle maestre e la radio accesa che descriveva l'accaduto. Finché sono rimasto ad abitare in Via Fani, mi recavo spesso a visitare quella lapide e nel mio piccolo a rivolgere un pensiero ad Aldo Moro ed agli uomini della scorta. Ancora oggi passando da quelle parti rivivo nitidamente quella terribile giornata. 
Gianluca A.

Avevo 9 anni all'epoca e forse, proprio perche' bambina, tutto mi sembrava ingigantito. Ci volle poco a capire che non era la mia mente di bambina ad ingrandire le cose, bensi' la terribile realta' dei fatti. Quella mattina, in via eccezionale non andai a scuola, mia mamma mi porto' a fare delle analisi. Eravamo nella nostra Fiat 500 percorrendo Via della Camilluccia, una strada che ben conoscevo in quanto vicina al nostro quartiere. La mia spensieratezza di bambina venne interrotta bruscamente quando mamma, all'improvviso urlo' e dovette sterzare uscendo dalla carreggiata, a causa di una macchina che guidava in senso contrario ad una velocita' folle. Segui il silenzio, interrotto solo da battito accelerato del mio cuore che si era spaventato. La macchina che correva a folle velocita era, ahime', la famosa Giulietta bianca. Quella era la fuga dopo la strage. Poco dopo entrammo in un bar, la radio raccontava l'accaduto. Ricordo in maniera molto vivida lo sguardo di mia mamma. Atterrito. Capii che qualcosa di orribile era appena accaduto, e che noi ne eravamo uscite indenni. 
Maria Elena Manfredini

Ero militare di leva al 1^ battaglione Bersaglieri "La Marmora" Caserma Davanzo-Aurelia. Quella mattina ero di servizio al magazzino di compagnia e sentii alla radio questa notizia per la quale ebbi un moto di paura. Tutti, essendo militari, pensavamo a possibili coinvolgimenti in questo evento tragico. Ricordo che era di giovedi, stavamo tutti con il fiato sospeso. Il venerdi trascorse senza alcuna novità ma il sabato mattina (giorno normalmente di libertà) suono l'allarme: anfibi e cinturone e in armeria. Nel giro di 2 ore fummo a Roma a fare i posti di blocco. Che giornate! 
Sergio Lo Bianco

Avevo 9 anni ed ero a scuola quella mattina. Scuola Elementare "Giacomo Leopardi" nel tranquillo quartiere della Balduina, a poca distanza da Via Mario Fani. Ricordo prima il suono degli elicotteri che sorvolavano la zona, poi orde di genitori spaventati e preoccupati che vennero a prenderci per riportarci a casa. Non capivamo bene che cosa fosse successo, di sicuro qualcosa di grave. Uscendo dalla scuola posti di blocco ovunque. Poliziotti e carabinieri con palette e mitra al collo. Avvertivo una senso di eccitazione e di sorpresa, ma non di paura. Sebbene avessi 9 anni, capivo che lo Stato, quello con la S maiuscola, c'era.
Angelo

Ricordo nitidissimo: Largo Argentina, ore 9.30 circa: mi sto recando all’Università La Sapienza e scendo dal bus 43. Mattinata grigia, sento che si parla del rapimento di Moro e della strage. Mi dicono che non conviene andare verso il Centro, sarà indetto uno sciopero generale. Nell’aria si respira una sensazione di paura. Non comprendendo ancora la “portata” dell’evento, decido di ritornare a casa. Da quel giorno, per tutto il sequestro Moro e negli anni successivi, mi soffermo a pensare a quel giorno. Tristezza, ma consapevolezza che la democrazia, quel giorno, ha vacillato, tremato, ma non capitolato!
 
1978: giovedi 16 marzo
presto m’arzo
devo n’annà all’Università
me spiccio
ma m’impiccio
la tessera del busse, nun trovo
metà mese, nun posso trovà uno novo
dar Portuenze, cor 43
arrivo all’Argentina e me pijo un caffè
vedo che parla tanta gente
ma nun se capisce gniente
chi parla der rapimento de Moro
e già m’accoro
poi, ce dicono de la scorta
tutta morta,
capisco che è un fatto eccezionale
e na senzazione de paura m’assale
la giornata me mette paura
nun c’è er sole, è grigia e quasi scura
penzo che è meglio a casa tornà.
Oggi, nun è aria de Universita!
Dopo 40 anni, anche oggi me sento un piccicore ar core
e ricasco ner dolore
sapendo che la democrazzia, ha sì vacillato,
tremato, ma nun è cascato!
Francesco Dragonetti

Sono nato in un bel paese nell’interno dell’Abruzzo montano di nome Scanno. Nel marzo del 1978 mi preparavo di li ad un paio di mesi a prestare il servizio militare. Per questo decisi di lasciare il lavoro di vetraio che svolgevo presso la vetreria di mio cognato a Sulmona. La vita nel mio paese, scorreva senza grandi sussulti. Venivamo da un inverno rigido ma le giornate oramai si cominciavano ad allungare e con gli amici si pensava ad organizzare gite e scampagnate. Ma la quiete che stavamo vivendo, fu sconvolta da una notizia terribile. Il 16 marzo era un giovedì come tanti, ma improvvisamente entra nelle nostre case la voce profonda del giornalista della Rai Paolo Frajese, i programmi televisivi furono interrotti, per dare spazio ai telegiornali straordinari. La notizia che sconvolse tutti, fu il rapimento da parte delle Brigate Rosse dell’onorevole Aldo Moro e l’uccisione della scorta. Scese in tutti noi una tristezza profonda, il senso d’impotenza ci assalì. Questo fatto sconvolse un po’ tutti, ma i miei pensieri si dividevano equamente al pensiero di dove avrei trascorso l’anno militare. Dopo qualche giorno dal rapimento di Moro, come tutte le mattine mi stavo recando al lago di Scanno, che dista 3 km dal paese e da lontano scorsi dei militari che stavano perlustrando il lago, c’erano dei sommozzatori pronti per immergersi. Tornato a casa accesi la televisione e sentii la notizia che le Br, avevano fatto ritrovare un volantino in cui si asseriva che il corpo dell’Onorevole Moro era stato gettato nel lago della Dughessa. Detto lago si trova al confine tra il Lazio e L’Abruzzo. Non so dire se tutti i laghi laziali e Abruzzesi furono perlustrati, ma di li a poco, si seppe che il volantino delle Br, che annunciava la morte di Moro, non era altro che un depistaggio, come altri che si susseguirono in quei terribili 55 giorni. I giorni passavano senza buone notizie per il rilascio dell’onorevole Moro, nel frattempo arrivò il telegramma in cui mi veniva comunicato che avrei dovuto presentarmi il 9 maggio all’aeroporto Fabbri di Viterbo. I preparativi andarono avanti, riempii la borsa che utilizzavo per andare a sciare con tutto quanto l’occorrente. Il 9 Maggio arrivò, presi la prima corriera per la stazione ferroviaria di Anversa, salii sul treno per Roma, da li avrei preso il treno per Viterbo. Ricordo il viso triste e piangente di mia madre la mattina quando mi salutò prima di partire. La sua tristezza e il suo sconforto quel giorno, fu ancora più grande, perchè oltre all’allontanamento del proprio figlio, quel giorno il 9 Maggio del 1978 dentro il cofano di una R4 a Roma fu ritrovato il corpo senza vita dell’onorevole Aldo Moro.
Angelo Torrisi

Il 16 marzo 1978, come tutte le mattine, mi accingevo ad andare al Liceo. Un giovedì, uno di quei giorni dove si cominciano ad odorare i profumi della bella stagione. L’epoca ci stava consegnando un’Italia complicata, piena di avanguardie sovversive, in preda a tumulti rivoluzionari, contraddittoria nei suoi tentativi, inutili ma lo intuiremo solo dopo, di non cedere ai ricatti del capitale e dei mercati finanziari che avrebbero, da lì a poco, condizionato con la logica delle grandi privatizzazioni e delle lobbies miliardarie le scelte sociali che fino ad allora avevano i connotati vagamente rassicuranti e le fattezze bonarie di una classe politica laica e cattolica , eredità ancora forte del percorso iniziato subito dopo la fine della guerra e che per tutti gli anni 70’ avrebbe influenzato le decisioni e i comportamenti dei partiti, dei loro leader e in generale dello Stato. Noi non eravamo immuni a questo vento di cambiamento, ma più di sentirlo soffiare direttamente lo vivevamo attraverso le notizie delle manifestazioni e degli scontri che, sulla scia di quelli di Valle Giulia, curiosamente avvenuti quasi esattamente dieci anni prima, avevano inaugurato quella stagione, straordinaria e impetuosa ma destinata all’inevitabile sconfitta ideologica, del cosiddetto “movimento sessantottino”. Nessuno di noi quella mattina, entrando nella sede provvisoria del “Galilei” a Via Canova, avrebbe immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo giorno degli anni controversi della legittimazione proletaria studentesca e che invece, nella sua tragicità, sarebbe diventato il primo di una vera e propria stagione di guerra che avrebbe trasformato radicalmente il Paese e le sue coscienze. La strage di via Fani, alle 8.55 di quel mattino di Marzo, non solo contribuì a farci ridestare dall’utopia di una visione della società dove il socialismo trotskista era un dogma inoppugnabile a cui noi tutti ci eravamo aggrappati per giustificare gli archetipi di contrapposizione al cosiddetto “sistema”, al quale quasi ineluttabilmente negli anni a seguire ci saremmo adeguati, ma ci fece piombare in una spirale di sconcerto e di angosciosa confusione. Come noi la maggior parte della gente, che comprese immediatamente come quell’attacco allo Stato, così cruento ma solo apparentemente immotivato se commisurato con la natura sì rivoluzionaria e anarchica della lotta di classe ma non tale da trasformarla in una guerra civile, avrebbe seminato negli anni a seguire lutti e dolore. Comprendemmo subito la gravità dell’accaduto. Ricordo lo smarrimento di quelli che come me avevano, fino allora, inneggiato alla rivoluzione come unica strada del cambiamento. Perfino attraverso la lotta armata, pensavamo con un tremito di disagio. Ora so che quel tremito era di paura. La paura che tutto il nostro inneggiare, contestare, irretire e manifestare ci avrebbe portati a compiere atti di temerarietà che, in realtà, non ci appartenevano neanche lontanamente. Il rapimento di Aldo Moro fu come uno schiaffo violento che ci fece barcollare e contemporaneamente rinsavire di colpo. Improvvisamente la nostra tracotanza politica crollò come un castello di sabbia e le nostre certezze furono minate nelle fondamenta. Le immagini dell’agguato, che sin da subito i telegiornali in bianco e nero dell’epoca trasmisero ininterrottamente, furono per noi come un monito continuo, diretto, angosciante. Ci sentivamo, ricordarlo ora è quasi puerile, anche noi responsabili. Perché ci credevamo. Perché non poteva che essere così che la società e il Paese sarebbero dovuti cambiare. Un Paese dove valori fondamentali come la giustizia, l’equità, il riconoscimento degli individui in quanto tali sarebbero dovuti essere sacri, inviolabili e indiscutibili. Un Paese dove finalmente si sarebbe potuto guardare con fiducia al futuro e dove tutti avrebbero avuto il diritto alla speranza di un mutamento sociale equo, solidale e condiviso. E pacifico. In realtà, quel giovedì mattina di 40 anni fa, cambiammo solo noi.
Dario Bertolo​

Quella mattina, la notizia del rapimento del giornale Radio Rai  la dette un collega che abitava proprio in via Fani, Giorgio Chiecchi. Cesare Palandri che stava conducendo il giornale radio, interruppe la trasmissione e dette all'Italia la notizia del rapimento. Giunsi in via Fani insieme al capitano dei carabinieri Luigi Magliuolo, comandante la tenenza di Roma Trionfale. Toccò a lui riconoscere i morti della scorta, che conosceva benissimo. Uno spettacolo incredibile. Venti minuti dopo arrivò il collega Paolo Fraijese del Tg Uno e cominciammo una lunga diretta, raccontando quella scena terribile Nell'auto, c'era ancora la borsa di Moro, sul sedile posteriore, poi si avvicinò un tale in borghese, bisbigliò qualcosa all'orecchio del carabiniere a guardia, prese la borsa e non lo vedemmo più. Chissà cosa c'era in quella borsa dello statista, mai più ritrovata. Uno dei tanti misteri italiani.
Franco Bucarelli



 
Ultimo aggiornamento: 23 Febbraio, 00:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA