Aborti senza consenso, orrore all'ospedale di Reggio Calabria

Sabato 23 Aprile 2016 di Ilario Filippone
Aborti senza consenso, orrore all'ospedale di Reggio Calabria
REGGIO CALABRIA - Due neonati morti per gravi negligenze nella gestione del parto, un altro con danni cerebrali permanenti, dieci donne con lacerazioni all'utero. All'ospedale Riuniti di Reggio Calabria, per anni, un poker di medici ha trasformato il reparto di Ostetricia e Ginecologia in una clinica degli orrori, manomettendo le cartelle cliniche delle pazienti, per nascondere colpe e magagne. All'alba di ieri, la Guardia di finanza ha arrestato quattro big della sanità calabra. Per gli indagati Pasquale Vadalà, ex primario dell'unità operativa finita sotto inchiesta, e Alessandro Tripodi, nipote del capomafia Giorgio de Stefano e ras indiscusso del nosocomio, sono stati disposti i domiciliari. Idem per i dottori Daniela Manunzio e Filippo Luigi Saccà.
LE INDAGINI

Secondo le indagini, erano medici pronti a inquinare le cartelle cliniche delle pazienti, se qualcosa andava storto in sala operatoria. E' il caso del bianchetto, utilizzato per cancellare farmaci prescritti alle pazienti. Il blitz, denominato “Mala sanità”, è stato coordinato dal procuratore Cafiero De Raho e dai sostituti Gaetano Paci, Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci. I provvedimenti sono stati firmati dal giudice Antonino Laganà. Indagando in gran silenzio, gli inquirenti hanno portato alla luce uno scenario raccapricciante. I sanitari avrebbero ingannato un plotone di aspiranti mamme, spesso costrette a subire violenti aborti e danni all'utero. L'elenco delle accuse è lungo: falso ideologico e materiale, soppressione di atti veri e interruzione di gravidanza senza il consenso della donna.
Il caso della partoriente L. T. è il primo a balzare agli occhi. Sorella del primario del reparto di Ostetricia e Ginecologia, la paziente è stata ingannata proprio dal fratello. E' stato lui a organizzare a tavolino il suo aborto: l'uomo sospettava che il feto presentasse delle patologie cromosomiche, così ha impedito il parto all'insaputa della donna. Ne dà conto il dialogo captato il 16 giugno 2010. Quel giorno, il medico fornì chiare indicazioni al collega, Filippo Saccà, sulla condotta da tenere: «Fagliela tragica, hai capito? Dille che c'è un distacco e non si può far nulla», spiegò. In un primo momento, il dottore Filippo Saccà si mostrò contrario: «Ma scherzi? Non esiste, tuo cognato penserà che lo abbiamo ammazzato», rispose. La conversazione continuò. «Mia sorella e mio cognato – aggiunse il primario – danno i numeri».
IL FARMACO

Alla fine, i due decisero di somministrare alla gestante un farmaco per interrompere la gravidanza: «Senza dirle un cazzo, le metto il Cervidil e le dico che sospendiamo la flebo». Frasi impresse nei colloqui agganciati dai militari delle Fiamme gialle e che fanno dell'indagine, seguita con il dovuto riguardo dal procuratore Cafiero de Raho, l'ennesimo atto di accusa mosso nei confronti della sanità calabrese. «La strategia concordata dai due sanitari – documenta il gip – era quella di somministrare, all'insaputa della donna, un farmaco abortivo, per stimolare le contrazioni della gestante ed indurre l'interruzione di gravidanza». Il dottore Tripodi è stato intercettato più volte. Eccolo mentre impartisce nuove disposizioni, per impedire il parto della sorella. «Senza che ti veda nessuno, le metti tre fiale di Sint , cosi si sbriga ad abortire», disse alla dottoressa Daniela Manunzio. «Alessandro Tripodi – hanno ribadito gli investigatori – è il cugino dei capi storici di una cosca di Reggio Calabria, Paolo, Orazio, Giovanni e Giorgio De Stefano». L'inchiesta vede nella veste di indagati altri sette sanitari dell'ospedale Riuniti. «Ricorda la clinica di Mengele», la chiusa degli investigatori.
Ilario Filippone
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