Primarie Pd, la strategia inclusiva di Zingaretti tra radici di sinistra e innovazione

Venerdì 1 Marzo 2019 di Mario Ajello
Nicola Zingaretti
Lo zingarettismo è pronto, se vince Zingaretti e soprattutto se vince bene, perché nel superamento del 50 per cento dei voti nei gazebo c'è il cuore di tutto. «Andremo sul classico, quando entreremo al Nazareno», dicono di fedelissimi di Nicola. Quelli che si riconoscono, come lui, nella frase di Stefano Benni - «Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti» - che è l'epigrafe «Reolad», il nuovo «breviario minimo» dello zingarettismo nella sua versione più di sinistra. Andare sul classico? Il Pd modello Nicola avrà il Dna mostrato dal suo titolare in questi 10 anni da presidente della Provincia e della Regione. In cui Zingaretti si è distinto per due cose: assenza di litigiosità (che è anche la capacità di fare squadra: si sono mai visti due suoi assessori accapigliarsi? No) e spirito anfibio. Che significa saper coniugare gli opposti: la sinistra più tradizionale (che nella galassia Nicola è incarnata da Massimiliano Smeriglio) con l'innovazione di tipo liberale e con le sensibilità più vicine alla cultura d'impresa, alla smart economy e al progresso. «La Tav va fatta - è uno dei punti chiave del probabile neo-segretario - e in più ci sono 140 miliardi per opere bloccate che vanno spesi per rimettere in sicurezza il territorio». E ancora, ieri: «Grandi opere come cuore degli investimenti pubblici».

In questo schema ibrido e aperto riuscirà il Pd modello Nicola a tenere dentro Giachetti e chi come lui temono la deriva grillesca, sinistrese e fortemente anti-renziana? Questa è la prima incognita che grava sul post-gazebo. Ma Zingaretti anche ieri nel confronto tivvù, oltre a sfoggiare un sorriso affettuoso appena veniva (cioè sempre) nominato Renzi ma i sorrisi in politica valgono poco, ha dato l'impressione di chi vuole aprire una nuova pagina, senza però stracciare quelle precedenti. Ricucire le visioni diverse, combattere la frammentazione, scongiurare altre diaspore facendo convivere figure e opzioni diverse: riuscirà Zingaretti dove nessuno prima di lui ce l'ha fatta? Ma soprattutto: tenere insieme tutto non rischia, finora così non è stato nell'esperienza del Lazio, di bloccare tutto?

FRAMMENTI E CESPUGLI
Nel confronto su Sky, Zingaretti ha indossato una tipica camicia veltroniana botton down, ben diversa da quella bianca-renziana di Giachetti e dalla tenuta di Martina con cravatta labour. Ma rispetto a Walter sembra difettare dell'aspetto immaginifico. Mentre sta cercando di recuperare, anche nel tentativo di portare più gente ai seggi sul versante pop: servizio su Chi corredato da foto in compagnia del fratello Montalbano e racconto delle proprie passioni (Gigi Proietti, Asterix, Giorgio Gaber) più intervista e bacio con Barbara D'Urso. Lo zingarettismo, così gli rimprovera Giachetti, rischia di somigliare all'Unione prodiana, e in effetti da Pizzarotti a Calenda, dai civici ai super-europeisti, dagli ecologisti e dai fuoriusciti dal Pd come Bersani furiosamente anti-Renzi a Renzi («Se Matteo vuole portare il suo contributo sarò la persona più felice del mondo») e via dicendo: non c'è frammento di progressismo sparso e cespuglio da far fiorire a cui Nicola non guardi. Ma soprattutto guarda non a M5S ma agli elettori che si sono spostati da quella parte e che sono recuperabili. «Ricostruire l'empatia con le persone», è il suo mantra. Il Non Rottamatore eccolo qua, insomma. Il suo problema è che alle primarie non devono andare in pochi. Lui spera «oltre un milione». E comincia da lì.

 
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