Duelli tv tra i leader, ora l'obiettivo è polarizzare i voti. Da Rutelli a Berlusconi e Prodi, un tempo le sfide erano decisive

Ieri ci si contendeva il voto del centro, ora si punta a mobilitare i propri elettori

Sabato 11 Maggio 2024 di Giovanni Diamanti
Duelli tv tra i leader, ora l'obiettivo è polarizzare i voti. Le sfide decisive da Rutelli a Berlusconi e Prodi

L’origine di tutto fu Kennedy-Nixon.

Parte in quel giorno, in quell’epico confronto del 1960, la storia dei dibattiti televisivi. E parte mostrando fin da subito tutte le proprie potenzialità. Quel dibattito sarà infatti fondamentale per la vittoria risicata del giovane senatore di origine irlandese, che sfruttò tutte le armi del mezzo televisivo a proprio vantaggio: a differenza di Nixon, era ben truccato, si sedeva in modo elegante, si presentava disteso e affabile. Un sondaggio post-dibattito lo dichiarò vincitore, ma solo tra chi aveva visto il confronto in televisione. Tra gli ascoltatori radiofonici, prevalse Nixon: un assaggio delle potenzialità televisive.

In Italia, il format del confronto tv tra leader emerge nel 1993: la nuova legge elettorale prevede l’elezione diretta dei sindaci, e ai cittadini piace conoscerli attraverso i dibattiti. Così, i confronti tra Rutelli e Fini, candidati sindaci al ballottaggio a Roma, e tra Mussolini e Bassolino, che si sfidavano a Napoli, registrano numeri record di audience e superano i confini cittadini, venendo ospitati dalle televisioni nazionali. Uno contro uno, un moderatore poco interventista, e due ore di confronto serrato, faccia a faccia. Fini, freddo, duro, con la battuta pronta; Rutelli, pacato e ammiccante; Alessandra Mussolini, irriverente e focosa; Bassolino, passionale e competente: i vincitori delle sfide, Rutelli e Bassolino, governeranno le loro città per due mandati, ma gli sconfitti, anche grazie alla loro mediaticità e al successo televisivo, saranno protagonisti per lungo tempo della politica italiana.

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Nel 1994 viene organizzato il primo, grande “braccio di ferro” (dal nome della trasmissione, condotta da Enrico Mentana) tra leader nazionali: Achille Occhetto, leader del Pds e dei Progressisti, si confronta con Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia e candidato in pectore alla presidenza del consiglio per il centrodestra. In parte, questo scontro rievoca l’esito del dibattito tra Kennedy e Nixon. Berlusconi, imprenditore televisivo, conosce bene il mezzo, ha battute preparate, sorride, veste un completo blu elegante e moderno con la spilletta del proprio partito appuntata al petto. Sull’altro versante, Achille Occhetto, meno a suo agio televisivamente, si presenta con un completo marrone da vecchio funzionario del Pci che passerà alla storia: di fronte all’uomo nuovo della politica italiana, sembrava un dirigente politico di un’altra epoca, pronto a cedere il passo. L’istituto Swg certificò l’esito della sfida con un sondaggio dall’esito piuttosto chiaro: il 41% degli italiani indicò Berlusconi come vincitore, mentre Occhetto fu scelto solo dal 23,7%.

Il primo governo Berlusconi dura poco, e due anni dopo si torna nuovamente al voto. Stavolta, il centrodestra sfida la coalizione dell’Ulivo, guidata da Romano Prodi, un professore emiliano considerato dai più come serio e onesto, ma ben poco televisivo. La fama di “grande comunicatore” di Berlusconi da un lato, e dall’altro proprio le basse aspettative sulla performance di Prodi giocano invece a favore del candidato del centrosinistra: nei due duelli registrati, uno, sempre condotto da Mentana, viene considerato un sostanziale pareggio tra i due, mentre l’altro, condotto da Lucia Annunziata per la Rai con l’inusuale format di “confronto a squadre” vede Prodi prevalere, spinto anche da un intervento molto efficace di Giovanna Melandri, che, programma alla mano, attacca il piano sanitario del Polo.

Per Berlusconi, è un colpo duro: da quel momento in poi, per quasi dieci anni, accetterà pochissimi confronti. Uno di questi è alla vigilia delle regionali del 2000, con Arturo Parisi: anche in questo caso, sottovalutando un avversario considerato “poco mediatico”. In occasione delle Politiche del 2001, invece, Berlusconi mette in pratica l’antico adagio per cui chi è in vantaggio, fa bene a conservarlo, evitando rischi: rifiuta ogni confronto con il leader ulivista Rutelli che, imbeccato dallo spin doctor americano Stanley Greenberg, risponderà facendo seguire il capo di Forza Italia da un uomo travestito da coniglio: Roberto Giachetti.

Bisogna attendere fino al 2005 per rivedere Berlusconi nell’arena: e lo fa a Ballarò in un confronto a quattro, a sorpresa, spalleggiato da Gianni Alemanno, affrontando due pesi massimi come D’Alema e Rutelli assieme, sostituendo all’ultimo minuto il ministro Enrico La Loggia all’indomani del tracollo del centrodestra alle regionali. Si capisce subito la funzione che Berlusconi attribuisce ai confronti tv: non più uno strumento di persuasione, come nel 1994, ma un mezzo per riattivare e rimobilitare la base delusa del centrodestra. È un nuovo paradigma. Nel 2006, infatti, nella campagna elettorale che si concluse con una rimonta straordinaria ma vana della sua Casa delle Libertà, Berlusconi affronta tutti: i comunisti Bertinotti, a Porta a Porta, e Diliberto, a Matrix; Rutelli, sempre a Matrix; Emma Bonino, a Ballarò. I confronti sono accesi, e Berlusconi più volte sembra alle corde: contro Diliberto in particolare, ma anche contro Rutelli, il Cavaliere sembra in grande difficoltà. Ma la sua strategia di fondo è mirata a recuperare la sua base, e ogni confronto è un’occasione per rivendicare i risultati ottenuti e lanciare lo spauracchio comunista (la vera ragione dei confronti con Bertinotti e Diliberto). Infine, la campagna elettorale termina con i due confronti con il leader dell’Unione, ancora una volta Romano Prodi, in Rai, secondo un format ingessatissimo, ma che non riuscirà a fermare scontri anche aspri tra i due candidati. E ancora una volta Prodi lo sorprende: i sondaggi successivi al primo dibattito premiano infatti il leader ulivista, solido, pacato, rassicurante. Ma la rivincita di Berlusconi è totale e spietata, nel secondo dibattito, con il roboante annuncio nell’appello finale, senza possibilità di replica per il professore, dell’abolizione dell’Ici: «Avete capito bene, aboliremo l’Ici». È il compimento della strategia berlusconiana, ma la sua rimonta si ferma a 25 mila voti dalla vittoria.

Non ci saranno più dibattiti tra leader delle due coalizioni, da quel giorno, se non un confronto Meloni-Letta in tono minore. Continuano, favoriti dal sistema elettorale, i dibattiti tra sindaci, anche sulle tv nazionali. E talvolta incidono sull’esito del voto, e cambiano la storia di una città. Come accadde a Milano, nel 2011. Il centrosinistra non aveva mai vinto, e Milano era la capitale dell’Italia berlusconiana. Letizia Moratti è in vantaggio per tutti i sondaggi, ma inspiegabilmente, al termine di un dibattito piuttosto safe e piatto con l’avversario Giuliano Pisapia, applicando la tecnica berlusconiana dell’annuncio senza possibilità di replica – che richiede comunque uno studio non indifferente del regolamento del dibattito -, accusa il candidato della sinistra di essere stato «giudicato dalla Corte d’Assise responsabile di un reato, il furto di un veicolo, utilizzato per il sequestro e pestaggio di un giovane». Pisapia, cui non fu concessa la replica, gridò alla calunnia e rifiutò la stretta di mano finale: era stato infatti assolto con formula piena. Da quel confronto, Moratti crollò nei sondaggi e perse poi la città di Milano, da quel momento guidata ininterrottamente dal centrosinistra.

Se c’è un leader che negli ultimi dieci anni ha più volte provato la strada dei dibattiti in tv, questo è Matteo Renzi. Sia in occasione della sua sconfitta alle primarie contro Bersani nel 2012 sia in occasione del trionfo contro Civati e Cuperlo del 2013, passò per un confronto televisivo. Poi, forte di una certa efficacia comunicativa, li cercò soprattutto prima del referendum del 2016: sfidò l’ex Dc De Mita, il costituzionalista Zagrebelsky, convinto dalle proprie performance, brillanti e aggressive. Le quali, tuttavia, acuirono il limite della sua strategia referendaria: trasformare i quesiti costituzionali in un referendum su di sé, esasperandone la personalizzazione.

IL PROPORZIONALE

Il confronto tra Elly Schlein e Giorgia Meloni è quindi erede di questa tradizione singhiozzante, e questa rarità nella frequenza dei dibattiti non fa che aumentare l’attesa di questo evento. Il sistema politico italiano, tuttavia, nel frattempo è cambiato. I dibattiti non sono più confronti faccia a faccia tra due portavoce unanimi delle due coalizioni che si confrontano alla guida del Paese: il multipolarismo e la frammentazione politica, uniti alla caratteristica puramente proporzionale delle elezioni europee, rendono la sfida tra le due leader una sorta di situazione win/win per entrambe. Certo, Giorgia Meloni ha qualcosa in più da perdere, ma entrambe ne usciranno ancor più legittimate, e approcceranno il confronto con pochi rischi: non c’è più, come un tempo, un segmento elettorale nel mezzo da contendersi, il 23 maggio ciascuna parlerà ai propri elettori, ai disaffezionati e ai votanti dei partiti a loro “vicini”, per ampliare la propria base in vista del voto. Sarà un confronto di mobilitazione, non di persuasione.

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