Il martedì dei fantasmi inizia prestissimo. Prima riunione ristretta alle 8.30 di mattina. C'è da scrivere il discorso di addio: un mix tra rabbia e orgoglio. Ma anche un messaggio di responsabilità nei confronti del governo visto che è il ministro degli Esteri. Ma sono pensieri che viaggiano come nuvole.
A un certo punto, chiuso nel bunker della Farnesina, Luigi Di Maio evoca chi è lontano migliaia di chilometri, in Iran: «Potrei fare una cosa con Dibba, un domani». E cioè Alessandro Di Battista, con il quale condivide una certa allergia nei confronti del Pd. Entrambi d'altronde erano contrari al governo giallorosso. Già ma cosa? L'unica certezza è che un Movimento organico nel centrosinistra non potrà mai andargli a genio
Di Maio, oggi il passo indietro: si dimette da capo politico M5S. Altri due deputati via
LE TELEFONATE
Di Maio - «che in queste ore si fida di pochissime persone» - nel pomeriggio avvisa il premier Conte della sua scelta. E poi chiama Beppe Grillo. Questa è la telefonata più complicata: «Non ce la faccio più: è impossibile andare avanti così», si sfoga il ministro degli Esteri con il Garante.
In tanti chiamano in serata Grillo, tutti con un moto d'apprensione. E lui prova a sfilarsi: «So che Luigi domani parlerà. Che dirà? Chiedete a lui, ragazzi». Anche il padre nobile è preoccupato: non sa come si muoverà il suo (ex) pupillo.
Nella testa di «Luigi» si affollano di continuo fantasmi e trincee.
Per esempio, all'ora di pranzo, i suoi collaboratori gli hanno raccontato che è partita la convocazione di un'assemblea congiunta dei parlamentari per la settimana prossima. «Deputati e senatori vogliono metterti alle strette».
In quell'occasione i ribelli che da 3 sono arrivati «a più di 30» saranno pronti a far diventare il documento di un mese fa partorito in Senato una vera e propria mozione. E soprattutto, vorranno discutere «le regole d'ingaggio» degli stati generali destinati a diventare un vero e proprio congresso. E ancora spingeranno per traghettare i pentastellati nel centrosinistra, a braccetto con il Pd.
LE REGIONALI
Ecco perché Di Maio gioca d'anticipo e in un momento di sfogo ammette: «Del risultato dell'Emilia Romagna non mi importa nulla, io ero per non presentarmi: vada come vada. Non vado in tv a commentare un 5%». In cuor suo sa che la notizia del suo addio, potrebbe aiutare, e non poco la narrazione di Matteo Salvini sul voto utile. Il tutto a discapito della maggioranza: «Non è un problema mio».
Di Maio oscilla. Passa dal senso di responsabilità alla voglia di sfasciare tutto. Un ministro lo chiama, con affetto, «il nostro Sansone».
Tecnicamente gli sono rimasti pochissimi fedelissimi: da Stefano Buffagni a Vincenzo Spadafora, forse il duo Bonafede&Fraccaro. Ma forse. Di Maio è infuriato con Patuanelli: «L'ho fatto diventare capogruppo, poi ministro e adesso non fa altro che mettermi in difficoltà. Questa è la gratitudine».
I PROTAGONISTI
In queste ore Di Maio non pensa di ricandidarsi agli Stati generali, ma immagina per sé un futuro politico molto, ma molto più defilato.