De Rita: «Manca un progetto per il Paese»

Martedì 29 Settembre 2020 di Mario Ajello
De Rita: «Manca un progetto per il Paese»

Professor Giuseppe De Rita, qui c'è un Paese da ricostruire e la politica sembra non accorgersi dell'urgenza. Lo sa, solo per fare un esempio, che il calendario dei lavori parlamentari per i prossimi giorni prevede solo minuzie?
«Me lo immagino. Secondo me ci sono tre o quattro fattori convergenti che spiegano il fatto che non si affrontano i grandi temi della politica. Il primo è che gli italiani di politica ne hanno avuta tanta, sono mesi e mesi che si parla solo di Dpcm, decreti, ordinanze, comitati tecnico-scientifici. E' politica controllare l'epidemia. E ora la gente pensa alle mascherine. In più è intervenuto un altro fattore. Che tutto il meccanismo parlamentare ruota intorno al Recovery Fund, e finché non entra nel vivo quel tema si gira freneticamente a vuoto. Sui fondi Ue per la ricostruzione si condenserà tutta la politica».


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Ma la questione Recovery non va affrontata subitissimo?
«Ora non si conoscono le linee direttive, per questo il dibattito è confuso, si parla di tutto ma nessuno ha un disegno politico».

E non è grave che manchi il disegno?
«Certo che lo è. Io questo disegno, da parte delle nostre classi dirigenti, non solo quella politica, proprio non lo vedo. In questo ultimo anno si è intervenuti a coriandolo. La logica dei bonus, alle baby sitter e a tutti gli altri, è stata coriandoli. Il disegno politico finora è stato far volare pezzettini di carta o, per dirla gergalmente, mettere toppe. Si è avuta una dispersione di interventi e quando è così significa che manca una visione».

Non è abbastanza normale questo, visto che occorreva rispondere immediatamente alle paure contingenti della popolazione?
«Ma adesso la fase è cambiata. Bisogna capire che la logica della dispersione è intimamente politica ma senza progettualità politica. La mia paura è che anche il Recovery Fund, cioè l'appuntamento decisivo di questa stagione, si riduca a misure parziali, ad altri coriandoli. Mi ha colpito il piano di interventi del ministero dello Sviluppo economico, così come quelli di altri dicasteri. Spesso sono lunghi elenchi di coriandoli. Spero che Palazzo Chigi faccia di tutto ciò un progetto organico. Per ora ci sono cose serie su cui intervenire, penso alla scuola, ma anche tante idee dispersive o addirittura stravaganti. Ho visto che si vuole dare un miliardo alla partecipazione femminile nelle politiche energetiche. Il mio timore è che Palazzo Chigi, abituato ai coriandoli, non riesca a renderli incartamenti seri».

Non sembra però che la cosiddetta società civile partecipi, proponga e sia all'altezza della sfida della ripartenza.
«Da antico esponente della società civile, devo ammettere che è così. Neanche questa ha un disegno. Penso al sindacato, ma anche alla Confindustria. Che cosa ci dicono per il domani? E gli opinionisti, idem. Anche loro, anche noi, non sanno fare una riflessione di prospettiva. Oggi è chiaro che la politica scolastica è una politica fondamentale. Proprio per questo non basta intrattenersi con i coriandoli dei banchi a rotelle. Occorre ripensare completamente il tema dell'istruzione e la questione di come poi collocare i ragazzi nel mondo del lavoro. A me preoccupa profondamente la disaffezione alla scuola. Da parte di tutti».

Senza visione, ma anche senza formazione, nessuna ricostruzione insomma?
«Pensiamo al tempo del Piano Marshall. Gli italiani, usciti dalla seconda guerra mondiale, hanno espresso una visione. Le ricordo per esempio che il Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia istituì una commissione economica. Fece un vero e proprio piano per utilizzare i soldi americani. E molti di coloro che poi avrebbero varato il Piano Vanoni o la Cassa del Mezzogiorno o le Partecipazioni Statali venivano da quella commissione, coordinata dal professor Alessandro Molinari che poi diventerà direttore generale dello Svimez».

Ma serve rimpiangere il passato?
«Serve prenderlo come stimolo. Allora c'era una cultura e una società civile che adesso non ci sono. Alla ricostruzione post-bellica c'era gente che lavorava per il futuro. Penso a Donato Menichella - che aveva rapporti personali con il presidente della Banca Mondiale e diceva agli americani ci servono soldi per il nostro Mezzogiorno e quelli ce li davano - ma potrei fare anche tantissimi altri nomi. Ne dico un altro: Raffaele Mattioli. Noi ci fidiamo di lei, gli dicevano gli americani. E Mattioli, quel grande uomo di banca, andò dal suo amico Togliatti e gli raccomandò: statevi calmi voi comunisti, sennò non arrivano i soldi. Lo sa lei oggi qual è il problema?».

Ce ne sono tanti.
«Il problema è che oggi abbiamo distrutto l'establishment. E lo abbiamo fatto attraverso tutte quelle storie e quelle polemiche contro la casta e contro la ricchezza e altre stupidaggini. Establishment non è chi ha più soldi ma chi ha più merito, più competenza, più cultura. Le vera politica, quella fatta di sostanza e di lungimiranza, e non di coriandoli, ha bisogno di una classe dirigente ben formata e molto consapevole. Mancando questa, dominano l'improvvisazione o il vuoto».

 

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La paralisi del governo , anche dopo il voto, continua.

E blocca di fatto il Parlamento. Per sapere di cosa si occuperà l'aula della Camera a ottobre e fino alla fine dell'anno, bisogna attendere la conferenza dei capigruppo che si terrà domani.


Ultimo aggiornamento: 09:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA