Coronavirus, verso la fine dell'iper-regionalismo

Mercoledì 1 Aprile 2020 di Mario Ajello
Coronavirus, verso la fine dell'iper-regionalismo
Cinquant’anni fa, nel 1970, vennero istituite le Regioni ordinarie. Mezzo secolo più tardi, cioè adesso, le Regioni si sono trovate ad affrontare la sfida più difficile: garantire la tutela della salute durante questa epidemia terribile e misteriosa del Coronavirus. Hanno fatto e stanno facendo tutto quello che possono.

Ma questa terribile emergenza, tra le tante cose che sta chiarendo sul sistema Italia, ha messo in evidenza che serve un sistema più integrato in materia di sanità e occorre un potere centrale con funzione di guida più forte. Troppi pasticci, troppe sovrapposizioni di competenze e bisticci tra centro e periferia, troppi passaggi per arrivare alle decisioni e catena di comando troppo lunga con l’effetto di ritardare gli interventi e di creare disordine e farraginosità normativa: ecco che cosa questi mesi terribili ci hanno detto sull’organizzazione dello Stato e sulla ramificazione dei poteri in una fase di emergenza eccezionale. Che potrebbe non essere l’ultima.

Quindi? Si dice sempre che nel post-emergenza del Covid 19 nulla sarà più come prima. Ovviamente non è proprio così, ma un dato si può anticipare: ai vertici delle istituzioni repubblicane, nei palazzi che contano, nei partiti di governo - dal Pd ai 5 stelle e in questo perfino Italia Viva aderisce alle posizioni della coalizione di cui fa parte - non se ne può più del Titolo V della Costituzione così come fu riformato dal centrosinistra nel 2001, con ampia devoluzione di poteri a cominciare dalla sanità ai governatori regionali, e alla ripresa della normale attività politica dopo questa tempesta medica e sociale sarà sul piatto proprio una revisione della revisione della Carta su questo punto cruciale per il funzionamento di un Paese.

Il centrodestra frena, più che altro per morivi di convivenza con la Lega che il regionalismo addirittura vorrebbe rafforzarlo in chiave autonomista, nonostante la cattiva prova data per esempio dalla Lombardia all’inizio di questa emergenza sanitaria, e l’argomento comunque sarà una pietanza forte del dibattito parlamentare. Anche il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, proprio con il Messaggero ha insistito sulla regia nazionale della materia sanitaria, e al Nazareno la ripresa del controllo statale sul comparto della salute pubblica è diventata una priorità. Basti pensare a quanto insistono su questo punto - «Occorrerà una riforma vera perché il regionalismo ha fallito», dice Beppe Sala, primo cittadino di Milano - molti sindaci anche del Nord. 
Insomma ci voleva proprio il Coronavirus per scoprire, dopo vent’anni, la contraddizione costituzionale insita nel Titolo Quinto, frutto del malcelato compromesso tra la Lega di Bossi e la remissività di un centrosinistra provato dalle capitolazioni successive di Prodi e di D’Alema e che rincorse il Carroccio sul terreno del federalismo nella speranza doi toccare palla al Nord. Gli articoli 116 e 117 di quel testo riformato divennero subito operativi, con il loro perverso concetto di «concorrenza» tra poteri dello Stato e delle Regioni destinata ad alimentare conflitti di competenza e rimpalli di responsabilità. Quelli che abbiamo visto e continuiamo a vedere in questi mesi purtroppo.
 
Le conseguenze di quella riforma regionalistica targata centrosinistra e le disfunzioni che ha generato vanno avanti sottotraccia da due decenni, mitigate da faticose conferenze Stato-Regioni nonché da continui contenziosi presso la Corte costituzionale. Non toccata (se non in peggio) dai successivi tentativi di revisione costituzionale ed aggravata dalle recenti velleità di “autonomia differenziata”, che ripetono il copione di un aggressivo attivismo leghista contro la timida e tentennare risposta del campo cosiddetto progressista e riformista.

E così, la tragedia in corso porta a rivedere il Titolo V della Carta e avrà la conseguenza di affievolire non poco, fino forse alla sua eclissi, la rivendicazione  della autonomia differenziata che è un cavallo di battaglia del nordismo leghista ma a questo punto difficilmente riproponibile con la baldanza vista finora. Almeno finché durerà questa maggioranza perché poi, nel caso dovesse  vincere il centrodestra al prossimo giro elettorale, allora il discorso cambierà. 
Intanto è constatazione generale che era molto più funzionale alla gestione di uno Stato unitario la situazione che esisteva prima del 2001, quando i poteri delle Regioni, pur significativi, dovevano comunque sottostare a quelli centrali. Dal 2001 in avanti abbiamo avuto la svolta, che ma non sono migliorati né spesa pubblica né lo spirito di unità nazionale. E la sanità a cui è destinato circa l’80 per cento di ogni bilancio regionale, fa spesso a desiderare in molte realtà e anche quelle giudicate d’eccellenza spesso non hanno brillato in questa emergenza massima rappresentata da  Covid 19.
Il dualismo tra Stato e Regioni è stato ed è esiziale. E verrà rivista o abolita  la riforma di cui sopra. Riconsiderando per esempio anche il contenuto della riforma costituzionale Boschi, quella renziana bocciata nel referendum, la quale prevedeva un nuovi bilanciamento tra i super-poteri dei governatori e l’autorità centrale. Schiere di giuristi la pensano come il loro collega, ed ex presidente dell’Autorità per la privacy, Francesco Pizzetti. Il quale osserva: «Tutto il sistema dei poteri statali e locali rispetto alle emergenze va ridefinito. Lo avessimo fatto dopo terremoto Amatrice sarebbe stato meglio». Ora però si tenterà di rimediare e una delle priorità della politica della ripartenza post trauma Coronaviurs proprio questa promette di essere. 
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