Autonomia, attacco alla Capitale. Il surplus fiscale destinato al Nord

Martedì 8 Settembre 2020 di Andrea Bassi
Autonomia, attacco alla Capitale Il surplus fiscale destinato al Nord

Il dossier, per lungo tempo, era stato insabbiato. Ora il progetto dell’Autonomia differenziata chiesta dalle Regioni del Nord, è tornato nell’agenda del governo e a ottobre, dopo le elezioni regionali, potrebbe essere presentato in Parlamento. Nonostante i tentativi di correzione rispetto a quella che era stata ribattezzata «la secessione dei ricchi», resta alto il rischio che le regioni con maggiori risorse possano lasciare ancora più indietro quelle che già oggi sono in affanno, ossia le Regioni del Sud.


 

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Slacciare i legami con Roma.

Staccare la maggior parte possibile dei fili che collegano le regioni settentrionali che hanno chiesto l'autonomia "differenziata" con la Capitale. Derubricare il Centro amministrativo del Paese ad uno dei tanti centri di uno Stato confederale dove il potere risiede nelle Regioni stesse. Meglio se ricche.



Il ministro degli Affari Regionali, Francesco Boccia, ha messo a punto una nuova bozza della legge quadro dentro la quale dovrebbero muoversi le intese con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Nell’ultima versione del testo, si torna a parlare per il finanziamento delle funzioni che dovrebbero essere trasferite di «compartecipazione al gettito erariale maturato nel territorio regionale». Cosa significa? Che lo Stato cederebbe un pezzo dell’Iva o dell’Irpef per pagare il costo delle funzioni trasferite dallo Stato centrale alla Regione. Il costo delle funzioni, questa volta, verrebbe stabilito attraverso il meccanismo dei fabbisogni standard e non più sulla base del costo storico, come prevedevano le intese dell’era giallo-verde. Ma resta il fatto che se anno dopo anno, il costo del servizio resta immutato e il gettito fiscale aumenta, quel surplus rimarrebbe nelle casse della Regione e non andrebbe più in quelle dello Stato centrale. 

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IL PASSAGGIO
Che il punto sia estremamente delicato lo dimostra anche la «clausola di salvaguardia» inserita nella bozza della legge quadro. In sostanza, dice questa clausola, se sul fronte dei conti pubblici le cose vanno male per lo Stato, allora si potrà chiedere alle Regioni che hanno ottenuto l’autonomia di partecipare al risanamento. 
Un principio di equità che nemmeno dovrebbe essere messo in discussione e che, invece, viene affidato a una disposizione di rango primario e a patto che le stesse misure vengano contestualmente imposte a tutte le altre regioni a statuto ordinario. 
Grande assente della proposta del governo, invece, è ancora una volta Roma, di nuovo dimenticata. L’autonomia regionale avviene per «sottrazione» di risorse alla Capitale, senza che il governo, ancora una volta, si preoccupi del destino della città. Il decentramento di funzioni amministrative, oggi svolte dai ministeri romani, avrà inevitabilmente un impatto, sul quale al momento all’interno del governo non c’è nessuna riflessione o discussione. L’altro tema sul quale si era molto dibattuto, è il ruolo del Parlamento nell’emendare le intese tra governo e Regioni. Nel precedente tentativo del governo giallo-verde, le intese erano state blindate, il Parlamento avrebbe potuto approvare o rigettare gli accordi ma senza poterli modificare. 
Le cose, in realtà, cambiano poco anche con la nuova legge quadro. Il Parlamento potrà pronunciarsi sulle pre-intese tra governo e Regioni. Avrà 60 giorni per fare delle osservazioni che potranno o meno essere recepite. Passato questo termine, governo e Regioni potranno firmare gli accordi che, a quel punto, potranno essere approvati o rigettati dal Parlamento. 
Alcuni passi avanti rispetto al passato sono comunque stati fatti. Il principale riguarda la circostanza che le funzioni non potranno essere trasferite fino a quando non saranno pronti i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Asili, trasporti, mense, insomma, devono avere un analogo livello su tutto il territorio nazionale. È un passo avanti decisivo rispetto alla vecchia impostazione in cui di Lep non si parlava affatto. Nei tre articoli della bozza, poi, è prevista anche la nascita di un fondo di perequazione infrastrutturale. Entro il 30 giugno del 2021, dovrebbe essere fatta una rilevazione del deficit infrastrutturale nelle Regioni meridionali. Poi entro sei mesi andrebbero presentati dei progetti per colmare questo deficit, da finanziare destinando una percentuale (che nella bozza della legge quadro non è ancora indicata) delle risorse statali per le infrastrutture. Èovvio che la valenza di questa norma (che potrebbe essere spostata direttamente in legge di bilancio), dipenderà proprio da quella percentuale. Che dovrà superare il minimo sindacale del 34%. 


L’iter
Silenzio-assenso
in Parlamento


Per molti mesi, durante il governo giallo-verde, il Conte Uno, si è discusso di quale dovesse essere il ruolo del Parlamento sulle intese raggiunte tra Stato e Regioni. Le Regioni chiedevano che fossero “inemendabili”, una volta accordatesi con lo Stato, il Parlamento non avrebbe dovuto metterci bocca. La soluzione trovata nella legge quadro proposta dal governo fa un passo avanti, ma che rischia di essere formale. Al Parlamento sarebbero trasmesse le pre-intese, sulle quali le Camere avrebbero 60 giorni per fare “osservazioni” (non emendamenti). Passati i 60 giorni governo e Regioni possono procedere comunque alla sottoscrizione degli accordi. 

Le condizioni
I livelli delle prestazioni
fissati prima delle intese


Uno dei passi avanti sostanziali rispetto al precedente tentativo fatto quando a guidare il ministero degli Affari Regionali c’era la leghista Erika Stefani, riguarda la questione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Nelle bozze di intesa che erano state predisposte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, non si faceva riferimento ai livlli essenziali. Adesso invece viene stabilito che le funzioni non possono essere trasferite alle Regioni che ne fanno richiesta, se prima non vengono fissati dei livelli essenziali di prestazioni validi in tutto il territorio nazionale. Resta però il dubbio che fissare i livelli essenziali delle prestazioni senza dire come finanziare i divari che devono essere colmati, lasci comunque lo spazio ad una differenziazione tra i servizi nelle Regioni.

La verifica
Check up degli accordi
nei primi dieci anni


Viene introdotto poi, un meccanismo di revisione delle intese tra Stato e Regioni. Viene in particolare stabilito che lo Stato e la Regione sottopongano a verifica l’intesa almeno entro il termine del decimo anno dall’entrata in vigore della legge di attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia o nel più breve termine fissato dall’Intesa stessa, che stabilisce, altresì, le modalità di revisione e comunque ogni qualvolta vengano modificati o aggiornati i livelli essenziali delle prestazioni. Manca però il passaggio fondamentale, ossia il meccanismo con il quale modificare gli accordi sottoscritti. Questo meccanismo viene demandato alle stesse
intese e, dunque, non sarà possibile conoscerlo
fino a quando non saranno presentate.

Gli investimenti
Quelle risorse 
sempre promesse


Nella bozza del governo l’articolo 3 è indicato con un asterisco e la dicitura: da valutare l’inserimento nella legge di bilancio. Il motivo è semplice. L’articolo 3 parla di un fondo di perequazione infrastrutturale per colmare il deficit tra le regioni del Nord e quelle del Sud. Ma inserirlo in una legge quadro senza risorse, sarebbe soltanto una promessa. Come del resto lo è stata fino ad oggi. La stessa legge 42 prevede la perequazione infrastrutturale, ma non è mai stata applicata. Anzi, negli anni al Sud è stato nemmeno garantito quel 34% di risorse ordinarie per gli investimenti a cui avrebbe avuto diritto in base al criterio della popolazione residente. Insomma, finché non ci saranno risorse nero su bianco è lecito dubitare

Ultimo aggiornamento: 9 Settembre, 15:26 © RIPRODUZIONE RISERVATA