Dino Zoff: «Io, un operaio che sa anche parare la vita. Ho invidiato Maradona e Platini»

Parla l'indimenticabile campione friulano: «La parola più bella che mi viene in mente è una: dignità»

Mercoledì 22 Febbraio 2023 di Paolo Graldi
Zoff: «Io, un operaio che ha imparato a parare la vita. Ho invidiato Maradona e Platini»

Ogni mattina al suo amato circolo romano, Il Canottieri Aniene, fa qualche vasca per tenersi in forma. Dino Zoff, 28 febbraio 1942, Mariano del Friuli, delle origini ha tenuto tutto: la sobrietà, la voglia di perfezionismo, l’esaltazione dell’etica del lavoro.

Nel mondo è considerato il portiere più importante di tutti i tempi. Ha vinto un pacchetto di scudetti, un campionato Europeo nel ’68 ed era capitano della Nazionale nell’82, allorché l’Italia si guadagnò il Mondiale. Dino Zoff ha una formidabile memoria, ma il tratto più forte riguarda il rigore morale e la correttezza in campo e nella vita. Una lezione a bassa voce quella di Zoff. Oggi dice di sé: «Ogni giorno quando mi capita di sentire il profumo dell’erba, provo una nostalgia bellissima, istintiva. Aveva ragione, mia nonna: la gioia dura un attimo. Ma certi attimi possono durare una vita intera».

Zoff, parliamo di calcio: ieri, oggi, domani. 
«Il calcio è cambiato come sono cambiate le generazioni. Paghiamo l’esasperazione mediatica».

Il calcio è malato? Troppi soldi? 
«Il calcio non è malato, non per i troppi soldi. Quelli li produce il mercato. È il mercato che fa il prezzo: se è malato il calcio è malato il mercato».

Lo sport è maestro di vita?
«Lo è per me. È importante per il miglioramento dell’uomo. Perché ci sono delle regole, c’è un arbitro, c’è il pubblico, c’è un comportamento morale. Sennò è inutile mandare i bambini a fare sport solamente per fargli migliorare i muscoli».

Oltre ai palloni in partita cos’è importante parare nella vita?
«Parare l’esistenza. Il modo di essere. La più o meno grande felicità che si può tirar fuori dalla vita».

Qual è il peggior difetto per un giocatore? 
«Credersi immortale». 

Ed il pregio più prezioso?
«La consapevolezza di dover migliorare. Almeno quando si è in attività, sempre». 

Regole del gioco e regole della vita: qualcosa le unisce?
«Dovrebbe unirle. Le regole dello sport per me sono straordinarie, mi hanno permesso di migliorare come persona e dunque nello sport». 

Razzismo e tifoseria violenta: come li giudica?
«Oggi questi sono fenomeni molto superficiali. Ai miei tempi ho fatto dei viaggi protetto sul cellulare della polizia. Negli Anni Settanta le cose erano molto più violente. Adesso ogni grande o piccola contestazione viene amplificata molte volte, a dismisura». 

C’è una frase ascoltata nella sua infanzia che l’ha guidata? 
«No al vittimismo. È una frase di mio padre. Quando prendevo un gol e dicevo che non me lo aspettavo che tirasse così, lui mi rispondeva: “Perché, mica fai il farmacista tu”. A casa mia non c’erano scuse, non ti esonerava un raffreddore». 

Qual è la parola più bella che le viene in mente? 
«Dignità».



Che cos’è per lei l’istinto? 
«Ho sempre cercato di capire l’istinto: se istinto è frutto anche del modo di essere nella vita. I grandi artisti forse non lo sanno da dove arriva la loro ispirazione. Io invece, che sono un lavoratore, ho creato l’istinto con l’esperienza». 

Le è mai capitato di dover decidere se perdonare o no?
«Non è questione di decisioni. Il perdono è naturale». 

Un punto di riferimento nella sua vita? 
«Io credo che sia nella formazione familiare, quindi nelle regole, nei doveri da rispettare. Ecco, in Friuli dove sono cresciuto c’erano i diritti ma anche i doveri. Questa proporzione al giorno d’oggi è un po’ saltata».

C’è una cosa che avrebbe voluto fare e non ha potuto? 
«No. Ho fatto il massimo, sempre. Ma non sono del tutto contento. Non mi accontento mai. È una mia presunzione: non sono così umile come appaio». 

 



La rabbia è un sentimento che le appartiene? 
«Non ne soffro però ce l’ho, eccome. La rabbia mi assale per comportamenti in campo non in linea con lo spirito sportivo». 

Si ricorda che sensazione provava quando subiva un gol? 
«Per prima cosa valutavo se c’era della mia responsabilità. Tante volte l’ho trovata e quindi non stavo particolarmente bene.

E quando parava, magari un rigore?
«Bravo, mi sentivo bravo. Però ho sempre pensato che bisognasse lavorare bene, un concetto derivato anche dalle regole della mia casa. Bisognava lavorare bene, qualsiasi cosa si facesse».

La memoria. Il ricordo più bello e quello più brutto?
«Il più bello: la vittoria del mondiale. Il più brutto è stato da giovanissimo. Dovevo essere convocato per la nazionale juniores. Mi avevano fatto il passaporto perché le partite si svolgevano in Portogallo. Immagini: in paese non si parlava d’altro. I giornali davano Zoff titolare. Scelsero un altro. Fu una grande delusione».

Che rapporto ha con il denaro? 
«Lo ritengo utile, necessario, però viene dopo la dignità». 

Che cosa pensa dell’avarizia e dell’avidità?
«La dignità implica comportamenti adeguati. Quindi né avari, né avidi». 

L’applauso del pubblico è un balsamo?
«Si, fa bene al corpo e allo spirito. Quando manca bisogna guarire da soli».

L’amicizia è un rapporto che riguarda più persone o gli amici si contano sulle dita di una mano?
«È logico che si contino sulle dita di una mano. Un’amicizia presuppone interventi intimi, ravvicinati. Non è così possibile averla a grandi numeri».

Che cosa ci si dovrebbe aspettare da un amico?
«Le cose più semplici del mondo: onestà e sincerità». 

L’amore: quanto è importante per lei?
«La prova è che sono 54 anni che sto con la mia signora». 

C’è un metodo per capire il prossimo?
«No, ma mi piace capire la logica delle persone anche se difendono ragioni diverse dalle mie».

C’è qualcosa che le fa paura? 
«Io ho ottant’anni, si dice che la vita duri un metro quindi direi che nutro qualche titubanza sull’ultima parte».

Qual è il valore della vita più importante per lei? 
«Essere quello che sei senza bluffare». 

A un ragazzo che le chiedesse un consiglio che cosa direbbe?
«“Ragazzo mio, vai bene a scuola così che se vuoi giocare al calcio impari anche meglio”. A casa mia, origini contadine, mio padre mi disse “se vuoi studiare facciamo dei sacrifici, tanto li facciamo sempre e quindi non cambia, ma impari un mestiere poi vai a giocare e se sarai bravo continuerai a farlo”. Oggi assistiamo ad un’esasperazione dei genitori sulle vite sportive dei figli che poi non porta su strade buonissime».

C’è qualcuno a cui dovrebbe chiedere scusa? 
«Probabilmente a tanti: delle volte prendo le situazioni seriamente e posso anche essere troppo ruvido». 

Che importanza attribuisce allo sguardo di chi le sta di fronte? 
«Lo sguardo è fondamentale. Facendo il portiere qualsiasi particolare non mi sfugge, poi posso considerarlo in modo errato, però lo noto». 

La psicologia del campione di che cosa è fatta?
«Di voler sempre fare di più, di non accontentarsi mai perché si può sempre fare di più». 

Quando si deve decidere di appendere le scarpette al chiodo?
«Purtroppo, quando si deve: quando arriva il momento capisci che stai chiudendo un’epoca della tua vita straordinaria che non si ripeterà più».

Lei ha scritto: “Prediligo le persone devote alla cultura del lavoro e della serietà”. È la sua filosofia di vita? 
«Sì, è così. Mia nonna mi ripeteva, quando ero un po’ abbacchiato “Non te la prendere. Alla fine, è passato da qui anche Napoleone che aveva gli speroni d’oro…”».

Il portiere per mestiere deve parare i tiri degli altri lei a chi vorrebbe aver fatto gol?
«Ho invidiato gli artisti, anche calcistici naturalmente, da Sivori a Maradona a Platini. Inventavano le cose. Il portiere non inventa niente. Io sono un operaio specializzatissimo mentre un artista non deve imparare niente, crea». 

Chi è il suo erede?
«In Italia ne abbiamo. Donnarumma, ha fatto delle belle cose fino adesso, poi Meret un altro giovane con un bel futuro».

Ultimo aggiornamento: 23 Febbraio, 09:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA