Carlo Verdone, nuovo libro: «La bisca con il flipper una carezza da film per la nostra memoria»

Domenica 14 Febbraio 2021 di Carlo Verdone
Carlo Verdone, nuovo libro: «La bisca con il flipper una carezza da film per la nostra memoria»

Negli anni sessanta e settanta a Roma, come credo anche in altre città, esistevano le bische. Erano frequentate da gente poco raccomandabile e vi si praticava il gioco d'azzardo. Spesso i gestori per ingannare la legge davano ai loro locali dei nomi che erano bizzarre sigle di ispirazione culturale, tipo CADAIM, che voleva dire Centro Affermazione Divulgazione Arte Italiana nel Mondo. Ma cultura de che? A me e ai miei amici veniva da ridere, perché bisognava avere la faccia come il culo per chiamare così un centro di riciclo di soldi sporchi, usura e traffico di gioielli rubati. Poi aprirono anche dei locali che pur mantenendo il nome equivoco di bische erano in realtà destinati ai ragazzi, studenti come noi, ma anche malandrini e nullafacenti.
Non ci si giocava a poker, ma a flipper e biliardino. Una volta che cominciavi a giocare a flipper eri fregato, perché ci saresti tornato spesso, drogato dai suoni, dalle luci colorate, dalla sfida continua alla tua prontezza di riflessi nel lanciare la biglia, stopparla e indirizzarla verso un obiettivo in grado di farti guadagnare punti. La vera goduria era poter battere il record che qualcuno aveva inciso sulla cornice del flipper. Non ci riuscivi mai, ma era già un successo anche solo avvicinarsi a quel numero composto da sei cifre alte.
L'AMICO
Un giorno Giovanni, il mio migliore amico, mi chiese di accompagnarlo in una bisca dove non eravamo mai stati. Si trovava vicino a piazza del Monte di Pietà, alla fine di via dei Pettinari. Quel giorno, dopo pranzo, arrivammo di fronte al grande portone d'ingresso di questa oscura bisca. Fuori, appoggiato al muro, un cinquantenne col capello un po' lungo e qualche mèche. Aveva un soprannome, Er Saraga: anni dopo lo ritrovai sul giornale, in cronaca nera. Era stato ammazzato a colpi di pistola. Abbronzato, pieno di ori al collo e ai polsi, fuma e fissa una bella donna che gli passa davanti in jeans attillati e capelli al vento. Con tono da rimorchio d'altri tempi le dice: «A bella cavalla... Se cerchi 'n fantino l'hai trovato». E così dicendo con una mano si palpeggia la patta dei pantaloni. Ridemmo tanto. E quel gesto diventò negli anni a venire il mio cavallo di battaglia nella rappresentazione del bullo di Un sacco bello.
LO STANZONE
Entrammo. Era uno stanzone immenso, con un forte odore di umidità e i muri scrostati. A tutte e quattro le pareti erano addossati tanti flipper, tutti occupati. Fumavano quasi tutti, e l'ambiente aveva un che di irreale: un girone sinistro di drogati del gioco. Nessuno parlava, si sentivano solo gli urti della biglia di acciaio sui bumper colorati che facevano scattare il punteggio. Ogni tanto partiva un ma vaffanculo... per un tilt o una biglia persa. Arrivò il nostro turno. Giocammo su un flipper per noi nuovo: si chiamava Luna Shot. Io ero diventato bravino, arrivavo a punteggi molto alti, ma su quel flipper ero un vero disastro. Decisi di spendere l'ultima moneta prima di tornare a casa a studiare. Mentre dividevo la partita con Giovanni, una biglia lui, una biglia io, sentii all'improvviso un gran clamore. Ci voltiamo e vediamo un cafone che più cafone non si può, capelli un po' a banana, occhiali scuri a montatura arcuata antivento, camicia e pantaloni neri. Era accompagnato da un codazzo rumoroso di ragazzi. Si era avvicinato a uno dei tantissimi flipper ma non stava ancora giocando. Si era messo a raccontare qualcosa, ma non riuscivamo a sentire bene. Siccome aveva un tono di voce interessante, rauco e volgare, decidemmo di mollare la partita e andare a sentire. Io e Giovanni eravamo sempre curiosi, perché queste voci di romani sbruffoni regalavano battute memorabili, battute che solo l'immensa creatività della coatteria poteva inventare. L'uomo in nero stava raccontando una scopata che si era fatto il giorno prima. Come un megalomane, davanti a una platea sguaiata, si vantava così: «... stavamo dietro a 'n distributore sulla Collatina. Già j'avevo dato de preliminari... C'ero annato de cesello co' la lingua sopra e sotto pe' mezz'ora. La vedo che nun ce capiva più gnente... Me strillava Sbrigate, famme godé... So' pronta'. E io: Guarda che nun ce riuscimo dentro 'sta màghina... Stamo stretti 'na cifra. Lei me fa: Provace, Silva'...' Ma che ce provo... è 'na centoventiquattro! Che m'hai preso, pe' 'n contorzionista?' Co' questa che strillava sbrigate!' nun ce penso du' vorte... Esco senza mutanne e senza camicia, la pijo pe' 'n braccio e 'a stenno sur cofano. Ahó, so' stato venti minuti a fà er pistone. Alla fine m'ha ringraziato... Pensa che quanno avemo finito m'ha fissato co' du' occhi dorci e m'ha detto grazie, Silvano...'. Io j'ho accarezzato i capelli e je ciò caricato: ... dimme che t'ho fatto toccà er cielo co' 'n dito'. Lei me guarda, me bacia e me fa: Er cielo? Ma tu m'hai dato 'a luna co' tutte le stelle...'.»
GLI ALBORI
Io e Giovanni eravamo piegati in due dalle risate, c'eravamo voltati per ridere senza farci vedere. Ci stavamo sentendo male. Dopo, per la strada già cominciavo a recitare per Giovanni quel monologo di rara, comica volgarità. Mi veniva benissimo. Ignaro che un giorno sarebbe diventato uno dei tanti protagonisti della mia vita artistica. E forse l'inizio di Troppo forte è merito anche suo. O tutto suo.
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Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 22:24 © RIPRODUZIONE RISERVATA