Un fiammingo per il baccalà

Giovedì 23 Gennaio 2020
Un fiammingo per il baccalà
LA STORIA
Il baccalà ovvero quel che per il resto del mondo è lo stoccafisso arriva per la prima volta a Venezia nel 1596 per opera di un mercante di Anversa, di nome Marco Manart. Questi inoltra una supplica al Senato per ottenere una riduzione dei dazi sul pesce chiamato stocvis, sull'olio di balena e su altri pesci non meglio specificati, forse aringhe, come scriverà in documenti successivi. Precisa che questa mercantia mai in precedenza giunta a Venezia viene commerciata per via di terra a Trento, Bolzano e Villach. Manart, invece, si impegna a importare i bacaladi per via di mare e sarà il primo a farlo. La vicenda è raccontata nel libro Serenissimo baccalà, edito da Biblioteca dei Leoni, che ha come autori Ermanno Tagliapietra, il principale importatore di stoccafisso in Italia (nato a Burano, sede della ditta a Mestre) e Michela Dal Borgo, già dipendente dell'Archivio di stato di Venezia. È stata proprio Dal Borgo a occuparsi dei documenti riguardanti Manart e conservati ai Frari. In realtà la richiesta di esenzione doganale inoltrata da Manart non era sconosciuta. L'aveva già scovata uno dei più importanti storici della Repubblica veneziana, Alberto Tenenti, che ne aveva parlato in un lavoro pubblicato nel 1959. Solo che a chi aveva letto quel saggio in francese (Tenenti, morto nel 2002, insegnava a Parigi) era sfuggita l'importanza ricoperta dal documento per la storia della gastronomia e del commercio.
LA RISCOPERTA
Non è una cosa strana che documenti noti vengano riscoperti a distanza di decenni: dipende sempre da cosa si cerca all'interno di un testo. Tenenti era interessato alla storia dei naufragi e delle assicurazioni marittime, non a quella del baccalà. Dal Borgo, invece, che da storica studia anche il cibo e le bevande, proprio di questo aspetto si è resa conto. E Pietro Querini, il mercante patrizio che nel 1432 naufraga alle Lofoten e scopre per la prima volta questo strano pesce rigido come un bastone? Si sapeva già che il comandante della Infelice e sventurata coca Querina aveva portato a Venezia la notizia dell'esistenza del baccalà, ma non il baccalà stesso (anche se parecchi indicano frettolosamente il contrario). Infatti nessun documento veneziano successivo a Querini e precedente a Manart cita il baccalà, o stoccafisso che dir si voglia. La filologa Angela Pluda ha trascritto il documento originale di Querini, conservato nella Biblioteca apostolica vaticana.
IL TESTO
Ecco il passaggio in cui Pietro Querini parla per la prima volta di quello che diventerà uno dei cibi-simbolo del Veneto: «I stocofis secano al vento e al sole senza sale perché sono pexi de puoca umidità, grasi, e diventano duri come legno; quando i voleno mangiare i bateno con il roverso de la manara» dopodiché li cuociono con burro e spezie «per darli sapore». Quando Querini lascia la Norvegia per tornare a Venezia viene omaggiato di sessanta stocofis però non risulta che qualcuno di quei pesci essiccati sia mai arrivato a Venezia e qualora vi fosse giunto, non ha lasciato notizia di sé. Bisogna quindi aspettare 164 anni perché il baccalà cominci ad affluire nella Dominante per poi diffondersi anche nello stato da Tera e in particolare a Vicenza, come noto.
AL SENATO
Torniamo a Manart. Il fiammingo si rivolge al senato a inizio 1596, ma la risposta ci mette parecchio ad arrivare: è datata 17 ottobre 1597 ed è affermativa. Dopo cinque anni rinnova la richiesta delle esenzioni daziarie che gli vengono accordate nell'agosto del 1602. Poco prima della scadenza del secondo privilegio, però, Manart muore: il 30 giugno 1607, nella parrocchia di San Giacomo dell'Orio, a 49 anni di età, dopo due mesi di malattia. A quel punto l'importazione torna a essere sottoposta ai dazi consueti, ma si accresce di parecchio, evidentemente il pesce essiccato aveva incontrato il favore dei consumatori. Infatti un documento di una decina d'anni più tardi registra che tra il 1° marzo 1617 e il dicembre 1618 si importano a Venezia ben 30.800 pessi stochfix, comunque meno dei 32.900 salmoni. Gli importatori erano obbligati a vendere la metà del carico esclusivamente ai salumieri veneziani. E qui si registra un interessante equivoco storico perché il pesce essiccato un arrivo dalla Norvegia era equiparato a un salume e venduto dai salumieri e non dai pescivendoli. In realtà Michela Dal Borgo ha trovato in archivio un precedente di qualche anno prima: il registro di carico del 4 dicembre 1581 di una nave veneziana in arrivo da Stoccolma che porta a bordo due botti di stochfis. Evidentemente la cosa non aveva avuto seguito perché non era cominciata l'importazione.
IL PESCE SALATO
Nel 1704 il senato, di concerto con i savi alla Mercanzia, approva un capitolato «In materia del pesce salato di ponente», segno che si era cominciato a importare, oltre allo stoccafisso, anche il baccalà propriamente detto, ovvero il merluzzo sotto sale. Si continua a parlare di «salumi». Marco Manart era un personaggio noto nella Venezia di quegli anni. Ne ha trovato altre tracce Luca Molà, docente veneziano nell'università britannica di Warwick. All'attività di mercante affianca quella di inventore e il 23 aprile 1588 propone al Senato «un modo ingegnoso et artificioso per condur in alto le acque fino a certa determinata quantità, con grande facilità e comodità alle esigenze domestiche». In buona sostanza aveva concepito un sistema per portare l'acqua nelle abitazioni, una sorta di acquedotto domestico con qualche secolo di anticipo. Non solo: «Ma anco con tale artificio si può adacquar gl'horti e può servire in occasione di fuochi per pronto rimedio agl'incendii». Il Senato gli concede un privilegio per 25 anni, ma non sappiamo se in qualche casa veneziana sia mai effettivamente arrivata l'acqua ai piani alti.
GLI ARAZZI
Molto più commerciale, invece, è l'atto notarile del 2 dicembre 1593 nel quale Marco Manart, assieme al fratello Giovanni, si impegna a consegnare a Venezia arazzi fiamminghi per la rilevantissima cifra di 30 mila ducati, in cambio chiede che gli vengano consegnati fili di seta e altri materiali per uguale importo da esportare a loro volta nelle Fiandre in modo che potessero essere utilizzati per realizzare ulteriori arazzi. Nell'atto scrive di aver già consegnato arazzi a «Benetto di Calimani e Isach Luzzatto ebrei» ed è quindi anche molto interessante questo, aspetto, ovvero che rifornisse sia i veneziani cristiani, sia quelli di religione ebraica. Tra l'altro questo commercio di arazzi, beni di lusso assai richiesti in quel periodo, doveva essere molto più lucroso rispetto a quello dello stoccafisso.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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