Tarabotti, suora femminista

Domenica 24 Gennaio 2021
Tarabotti, suora femminista
IL PERSONAGGIO
«O miserie, o tormenti veramente d'Inferno per quelle infelici che, senza niun altra provigione che quella poca dote, povere nelle ricchezze de' travagli, vien a forza sigilate ne' chiostri! Una poca veste di lana, bianca o nero tinta in bruno, vien lor consignata da' crudi genitori appunto per che sia proporcionata a coprirsi di bruno in quell'ultimo oscuro giorno in che restano sepelite in un convento», queste disperate parole sono state scritte da suor Arcangela Tarabotti, nata a Venezia nel 1604, che, costretta a entrare nel monastero di Sant'Anna, all'Arsenale, si scaglia con tutte le sue forze contro la diffusissima pratica delle monacazioni forzate in un'opera non a caso intitolata Inferno monacale.
LA BIOGRAFIA
Elena Cassandra (questo il nome secolare della Tarabotti) non è nemmeno la prima veneziana a prendere risolutamente posizioni proto femministe: nel 1600 esce postumo Il merito delle donne di Moderata Fonte, nel quale l'autrice, una poetessa, teorizzava l'inutilità del maschio: «Noi non stiamo mai bene se non sole e beata veramente quella donna che può vivere senza la compagnia di verun'uomo».
La pratica delle monacazioni forzate era diffusissima, si trattava di un modo per non disperdere i capitali familiari: si dava la dote a una figlia soltanto, le altre dovevano rassegnarsi alle mura claustrali. Monacar o maritar si diceva a Venezia, aut murus aut maritus nel più aulico latino, ma il significato era identico. Com'è intuibile c'era una differenza tra le donne aristocratiche e le altre. Alle prime erano riservate strutture particolari, come il monastero di San Zaccaria, dove vivevano non in squallide celle, ma in veri e propri appartamenti, dotati di ogni comfort in relazioni ai tempi, e con proprio personale di servizio. Inoltre vigeva una specie di patto non scritto per le donne patrizie: mi faccio monaca, ma poi faccio quello che voglio. Questo è il motivo per cui alcuni monasteri veneziani più che essere luoghi dove i peccati si espiavano erano invece posti dove i peccati si commettevano, soprattutto quelli della carne, come testimonia Giacomo Casanova, con le sue relazioni con le monache CC (Caterina Capretta) e MM (Maria Morosini) nel monastero di Sant'Angelo, a Murano (non più esistente).
CONVENTI POVERI
Ben diverse le condizioni delle popolane, come la Tarabotti. Le famiglie (ma sarebbe meglio dire i padri) spesso non pagavano le rette e queste povere ragazze venivano abbandonate dietro il muro, praticamente sepolte vive, con gravissime tensioni. «Il convento si riempie di risse, imprecazioni contro i congiunti che cagionarono loro quella condizione, e contro i superiori che la permisero», osserva la scrittrice Elena Stancanelli e riporta pure le parole della stessa Tarabotti: «A guisa di furibonde fere trattenute da nodi indissolubili si van disperatamente ravolgendo er affanando fra quei muri senza rittrare altro frutto d'un tormentosissimo cordoglio».
La famiglia Tarabotti, che vive a Castello, non è povera, il padre è chimico, ma Elena Cassandra è quarta di undici figli, prima di sette figlie. In teoria dovrebbe essere lei a sposarsi, essendo la primogenita delle ragazze, ma ha ereditato dal padre il piede caprino e quindi è zoppa. Le viene riservato il triste destino del velo. Entra in monastero tredicenne, come educanda, e non ne uscirà più per tutta la vita. «Se stimate pregiudicar la multiplicita delle figliole alla Ragion di Stato, poiche, se tutte si maritassero, crescerebbe in troppo numero la nobilta et impoverirebber le case col sborso di tante doti, pigliate la compagnia dattavi da dio senz'avidita di danaro. Gia a comprar schiave, come voi fatte le mogli, saria piu decente che voi sborsaste l'oro, non elle, per comprar patrone», osserva riguardo alla pratica delle doti e poi conclude amaramente invitando i padri a «uccider i parti maschi subito nati, un sol conservandone per ogni famiglia, essendo molto minor peccato che sepelir vive le femine».
PAROLE INEDITE
Trova conforto nella scrittura, ma il libro da cui sono tratte queste righe, Inferno monacale rimane inedito per 400 anni: la prima edizione a stampa è del 1990 (comunque oggi è reperibile facilmente nel sito liberliber.it). Trova un editore, invece, il Paradiso monacale, ma soltanto perché ha un titolo meno imbarazzante, poiché il contenuto è amaro tanto quanto quello dell'Inferno: «Recisi i capelli, ma non sradicai gli affetti, riformai la vita, ma i pensieri, ch'apunto a guida di capelli tagliati, più crescono vanno pululando». Un suo libro particolarmente significativo si intitola Tirannia paterna, dove si scaglia contro le monacazioni forzate e l'opera verrà nel 1660 proibita dalla congregazione dell'Indice.
IL DRAMMA DELLE NOVIZIE
Elena Stancanelli spiega cosa fosse quell'inferno per le novizie: «La versione grottesca del paradiso al quale avevano promesso di condurle. Alle ragazze che devono varcare la soglia del convento, tutti quanti mentono. Mente la famiglia, promettendo loro che vivranno in un luogo dove tutto è gioco e leggerezza, dove saranno libere dall'obbligo di lavorare e di adempiere alle funzioni di una moglie e di una madre. Mentono, come mentono pure le altre donne, le monache, già vittime anche loro di quella pratica di confino. Anzi queste ultime mentono ancor di più, secondo il meccanismo psicologico che conosciamo: in regime di reclusione le più efferate sono le compagne di destino, che nella delazione e nell'inganno cercano di ottenere anche minuscole deroghe alla loro contenzione».
CONTROCORRENTE
Non conosciamo l'aspetto fisico di suor Arcangela Tarabotti, il ritratto che si pensava suo si è invece rivelato essere quello di Maria Salviati, moglie di Giovanni de' Medici e madre dell'arciduca Cosimo I. Oltre a scrivere numerose opere, da dentro le mura suor Arcangela intrattiene una fitta corrispondenza con altri letterati, in particolare con gli affiliati all'Accademia degli Incogniti, che si riuniva a casa del fondatore, lo scrittore patrizio Giovanni Francesco Loredan. Nel 1650 pubblica le Lettere e familiari e di complimento, epistolario che testimonia la ricchezza e la profondità delle sue relazioni.
Suor Arcangela Tarabotti muore di «febbre e catarro» il 28 febbraio 1652, a 48 anni, e probabilmente per lei si tratta di una liberazione «Se qualche volta bramano ritrarre li piedi dalla soglia di quel'angoscioso Inferno per loro, si lagniano sino per invocar la morte che le libera, la trovano sorda; anzi, per maggior pena, vien loro prolongata la vitta, quando la maggior parte delle monache vive sino all'eta decrepita perche, nella longhezza, quelle che vi sono contro lor voglia, provino piu grave il tormento. Cotal pena e la mia, che morte aguaglia»
Alessandro Marzo Magno
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