Simeoni, la donna che saltava 2 metri

Lunedì 27 Maggio 2019
L'INTERVISTA
«Alle Olimpiadi di Mosca ero andata per vincere, avevo il record del mondo nel salto. Ho sofferto quando sono entrata nello stadio, mi giocavo tutto. Avevo paura, batticuore, la voglia di piangere, non capivo più cosa facevo; ma in mezzora è passato l'uragano. Tutto il mondo è lì e se sbagli non hai altre occasioni».
Con quel salto Sara Simeoni, veronese di Rivoli, 66 anni, è entrata nella storia e nella leggenda dello sport. Un oro a Mosca, argento a Montreal e Los Angeles. Oggi è un'insegnante che si prepara alla pensione, per conto della Federazione atletica va nelle scuole a spiegare come lo sport aiuti a diventare cittadini migliori. Quel sorriso gioioso e smarrito dietro occhi grandi mentre cade sul tappeto di Mosca, ne ha fatto un'icona della donna nello sport azzurro. Quella sua rincorsa strozzata in un piccolo urlo l'ha consegnata all'immaginario dell'Italia. Ha sposato Erminio Azzaro, ex azzurro dell'alto e suo allenatore. Un figlio, Roberto, 28 anni.
Si nasce col pallino dell'asticella da superare?
«Non mi sfiorava l'idea da bambina. Sono nata qui a Rivoli, erano strade in terra, non è mai stato un paese grande, i bambini erano liberi di giocare come volevano: c'era, anche senza saperlo, un controllo da parte di tutti. I miei genitori avevano un'azienda agricola, a me e a mio fratello la vecchia mietitrebbia sembrava un drago e i covoni impilati per farli asciugare erano il posto ideale per nascondersi. Papà Beppo era un ufficiale alpino, aveva conosciuto mia madre sul fronte francese. Dopo l'8 settembre '43 aveva fatto da Roma a Rivoli a piedi, poi era andato nella Resistenza in Piemonte con una brigata partigiana di amici universitari. Lui bastava metterlo in montagna, andava a piedi da qui a Monte Baldo per cacciare il gallo cedrone. Quando siamo andati a scuola a Verona, tornavamo solo il sabato. La scuola elementare aveva un centro di educazione artistica con corsi di danza e musica, da quei corsi sono venuti fuori i Gatti di Vicolo Miracoli».
Sognava di diventare una ballerina?
«Non pensavo all'atletica, volevo diventare una ballerina ma sono stata scartata dalla danza perché troppo alta. Alla televisione vedevo le gemelle Kessler, era un divertimento imitarle. Ero un po' indecisa, mi piaceva molto anche il disegno, avevo vinto un concorso di pittura a scuola. Nella palestra delle medie si allenava una squadra di atletica leggera, avevo visto alla tv le Olimpiadi di Roma ed ero rimasta affascinata dalla romena Jolanda Balas che saltava e sembrava volare. Lo sport in quegli anni non era così abituale per una ragazza».
Quando ha capito che sarebbe diventata una campionessa?
«Cominci a fare le garette e nell'alto ho saltato una misura che era record per la categoria: saltavo frontale, era come superare un ostacolo, il ventrale è venuto dopo. Era divertente, partivi in gruppo con la squadra, uscivi dal tuo piccolo mondo e qualche volta dormivi fuori. La motivazione non era la medaglia, era avere la possibilità di girare. La prima medaglia l'ho vinta a Verona in una gara al campo Coni, col titolo provinciale ho capito che potevo crederci!».
E la prima maglia azzurra?
«Nel 1970 ero nella Nazionale giovanile in Romania e Iugoslavia, per la verità la maglia era bianca con una striscia azzurra e lo scudetto tricolore. L'anno dopo ho indossato la prima maglia assoluta agli Europei di Helsinki. Ma è alla prima Olimpiade, a Monaco nel 1972, che ho pensato di provare a fare lo sport seriamente. Ci sono arrivata all'ultimo, avevo saltato 1,80 ma volevano lasciarmi a casa ed è stato Onesti a impuntarsi. Mi sono migliorata di 5 centimetri e sono arrivata sesta, con tre centimetri in più ero sul podio! A quel punto mi sono chiesta se quelle saltatrici che mi sembravano aliene, soprattutto le atlete dei paesi dell'Est, fossero davvero imbattibili?».
Monaco è stata un'Olimpiade macchiata di sangue
«All'inizio il clima era una meraviglia, mettetevi nei panni di una ragazza di Rivoli che si trova in un bellissimo villaggio olimpico. Tutto bene fino a quando c'è stata la tragedia. Non ci eravamo accorti di niente, nonostante gli alloggi dell'Italia fossero vicinissimi, la palazzina di Israele era proprio tra quella dei maschi e quella delle femmine. Ma quella mattina ci siamo accorti che nell'aria c'era un silenzio strano, non si sentiva musica, niente risate. C'era paura e si vedevano uomini armati ovunque».
Il primo argento olimpico, Montreal 1976?
«Non immaginavo di salire sul podio con 1,91 che era il mio record. Non c'era metodologia di allenamento femminile, sul campo facevi quello che ti passava per la testa. Eri tu che dovevi sperimentare e io l'ho fatto con Erminio e questo ha portato i risultati a Montreal. Vincere con la Ackermann con 1,94 era difficile, ma salire sul podio era possibile e l'ho fatto. Per fortuna avevamo un presidente illuminato come Nebiolo che credeva nella ricerca basata su fisiologia e biomeccanica».
Dopo l'oro di Mosca, come è andata nel 1984 a Los Angeles?
«Anche qui il podio non era previsto, era tipo viaggio premio, non riuscivo più ad allenarmi per problemi al tendine di Achille. Incominciavano a guardarmi con aria di compatimento: ma questa cosa vuole? In fondo eravamo solo in tre al mondo a saltare i due metri, e poi mi piaceva l'atmosfera del Villaggio Olimpico. Il difficile per me era reggere due gare di fila. Una volta, dopo gli allenamenti, Erminio aveva dovuto riportarmi al Villaggio in spalla, è stato allora che ho trovato un ortopedico americano, il dottor Joe Pagliano che avevo conosciuto in una preolimpica a San Diego. Mi coinvolge in una terapia a base di ultrasuoni e ghiaccio in casa sua a Malibu e ha funzionato: credo di aver fatto la gara più bella della mia vita, ho rifatto i due metri, chi ha vinto ha saltato appena due centimetri più in alto!».
Perché nel 1986 ha abbandonato lo sport?
«Perché non ne potevo più. Eravamo nella fase in cui lo sport stava cambiando e l'atletica nuova non mi piaceva. A fine stagione c'era un meeting a Cagliari, avevo molti amici in Sardegna, mi avevano regalato un cavallino della Giara che gareggiava, si chiamava Laru, che vuol dire alloro in sardo: era estroso, sapeva di essere bello. Butto le scarpette nella sacca e vado a gareggiare, salto 1 e 85 e a fine gara a chi mi chiede cosa farò rispondo subito: Questa è l'ultima gara, sono stanca!. A 33 anni ero più rotta che altro, gareggiavo con chi aveva anche 15 anni meno di me. Nebiolo che era in volo per Tokio viene a saperlo e si incavola: Non puoi smettere senza prima dirmelo!. Per far pace abbiamo dovuto invitarlo al matrimonio come testimone. Lui voleva addirittura che ci sposassimo all'Olimpico! A Nebiolo piaceva il calcio, voleva far diventare Simeoni e Mennea famosi come Mazzola e Rivera. Anche se il mio idolo calcistico era Gigi Riva».
E la Simeoni cantante?
«C'è stato un periodo in cui si cercavano fondi per beneficenza, così è nato quel Bimbo Hit. Ci siamo ritrovati calciatori, atleti, cantanti, personaggi dello spettacolo e siamo andati tutti a registrare a Firenze, ognuno cantava un ritornello. Abbiamo cantato anche sotto il tendone del circo Orfei. Un'altra volta, dopo i mondiali di calcio '90, ho inciso una canzone per bambini con Gabriella Dorio, Cova e altri. Non canto, mi piace dipingere, sono diplomata al liceo artistico. Quando il presidente del Cio Samaranch ha chiesto agli olimpionici con talento di dipingere qualcosa, io ho disegnato gli ulivi del lago di Garda».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci